Il gioco dilaga e - benché irrori di denari le esangui casse statali – provoca danni sociali diffusi, tanto da essere ormai riconosciuti come malattie curabili dal sistema sanitario (con relativi costi per la collettività). Nell’Italia del secondo millennio, quella dell’azzardo è diventata una tra le principali industrie del paese. La quale (entro certi limiti) crea lavoro e fa circolare moneta. Ma semina disagi che sfilacciano migliaia di esistenze e di famiglie. Dunque, necessiterebbe di una regolamentazione politica. Come quella che ha provato a dargli, a inizio settembre, il ministro della sanità, Renato Balduzzi. La vicenda è nota: Balduzzi aveva portato in consiglio dei ministri, il 5 settembre, il suo decreto legge di riforma del sistema sanitario, “arricchito” da provvedimenti di portata più ampia. Alla fine, però, la stretta sul gioco d’azzardo è stata molto più blanda di quella auspicata dal ministro. Inviato al presidente della repubblica una settimana dopo, il disegno di legge via via ha perso pezzi.
Nel tragitto tra Palazzo Chigi e Quirinale, il provvedimento è stato progressivamente e clamorosamente depotenziato, al termine di una battaglia dietro le quinte. Deludendo associazioni, sindacati e sindaci che avevano sperato in una prima effettiva regolamentazione della materia. E confermando l’impressione dello strapotere ormai assunto dalle lobby di settore.
Quello che è rimasto è un testo di 15 articoli, suddivisi in quattro capitoli, nei quali le uniche limitazioni previste, per il gioco, riguardano la pubblicità: niente messaggi promozionali nei programmi rivolti ai giovani; introduzione di “formule di avvertimento sul rischio da dipendenza”, nonché indicazione delle “relative probabilità di vincita sulle schedine o sui tagliandi dei giochi” e all’ “atto di accesso dei siti internet” nei giochi on line; multe più salate (da 100 mila a 500 mila euro) a chi non si atterrà a queste disposizioni. Nella versione definitiva del decreto si stabilisce anche che saranno effettuati almeno cinquemila controlli all’anno per contrastare il gioco minorile.
Insomma, risarcimenti parziali, concessi dal governo a chi si aspettava tutele maggiori, dopo il clamoroso dietrofront sulle distanze minime da chiese, scuole e ospedali a cui si sarebbero dovuti attenere i concessionari delle licenze per l’apertura delle nuove sale giochi. Distanze che nelle varie bozze del decreto legge erano passate da 500 a 200 metri, ma sono infine state del tutto cancellate.
«La storia stessa delle variazioni al decreto Balduzzi mi pare emblematica: la prima versione recepiva l’80% delle nostre osservazioni, quella finale quasi nessuna. Il risultato è un testo insufficiente, fortemente condizionato dai gruppi affaristici che controllano il gioco, che si sono saputi imporre an-che su un governo tecnico», commenta amaro l’avvocato Attilio Simeone, coordinatore del cartello nazionale “Insieme Contro l’Azzardo”, costituito dalle 28 fondazioni antiusura regionali di matrice cattolica. L’amarezza, d’altra parte, è evidente in tutto il va-sto e variegato fronte di realtà della società civile che si sono mobiliate con la campagna “Mettiamoci in gioco”. Una fronte che va dalle Acli all’Arci, dai sindacati alle associazioni di consumatori, dalle comunità di accoglienza ai gruppi di auto mutuo aiuto dei giocatori d’azzardo, dal Pime al Gruppi Abele e Libera.
«Abbiamo titolato il nostro comunicato “Gioco d’azzardo, il governo fa cilecca”. Non posso che confermare questo giudizio. Il provvedimento è deludente e inadeguato», sostiene don Armando Zappolini, presidente del Cnca (Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza), che tuttavia dà atto al ministro di aver posto all’attenzione pubblica i rischi sociali del gioco d’azzardo, finora sottaciuti dalle istituzioni.
E infatti, se un risultato può rivendicare Balduzzi, è quello di aver ottenuto l’inserimento del gioco patologico nei Lea, i Livelli essenziali di assistenza, riconosciuti dal sistema sanitario nazionale.
Ma è ancora un passaggio tecnico, formale, sebbene di grande valore sul piano dei principi. Vuol dire che lo stato ammette che di azzardo ci si può ammalare e decide che dei giocatori patologici si deve fare carico. Anche se non dice ancora come, con quali risorse, in quali strutture e servizi li curerà.
Secondo le stime, i giocatori d’azzardo patologici in Italia sarebbero 700 mila, vale a dire il doppio degli alcolisti e dei tossicodipendenti in cura a Sert. Ma a differenza di questi ultimi, restano fantasmi per il sistema sanitario nazionale. Gli interventi sono pochi, sporadici, discontinui. Le sole cure assicurate dalle aziende sanitarie pubbliche dipendono in gran parte della buona volontà e dalla sensibilità di qualche direttore di Sert, che nelle pieghe dei bilanci sempre più asfittici delle Asl riesce a racimolare qualche spicciolo anche per le cosiddette “nuove dipendenze”. Tutto il resto – ed è molto – lo si deve alla fantasia e alla creatività del mondo non profit: Caritas, comunità di accoglienza, gruppi
di auto muto aiuto, enti storicamente impegnati nel recupero di tossicodipendenti, che si sono specializzati nell’assistenza delle nuove forme di dipendenza, sviluppatesi silenziosa-intende garantire questa priorità di trattamento».
Gli interventi clinici specifici e preventivi e la copertura finanziaria per realizzarli restano infatti un grande buco nero. In altri paesi il gioco d’azzardo è tassato per sostenere le terapie di chi, giocando, si ammala. «In Svizzera, ad esempio, lo 0,5% degli introiti della grande lotteria nazionale vengono utilizzati per attività di recupero, prevenzione e cura – osserva Iori –. In Italia, invece, non siamo ancora riusciti a distrarre un euro dei lauti guadagni dei concessionari del gioco per riparare ai danni collaterali».
Appunto: i lauti guadagni. L’industria del gioco è il solo settore dell’economia nazionale che in tempi di recessione ha visto crescere senza sosta il proprio fatturato. Gli introiti sono passati dai 14,3 miliardi del 2000 ai circa 80 del 2011. E quest’anno, secondo alcune stime, si dovrebbe toccare la soglia dei 100 miliardi di euro. Una crescita vertiginosa, voluta e sostenuta dallo stato.
Nell’ultimo ventennio non c’è stato governo, di destra o di sinistra, che non abbia introdotto un nuovo gioco. Dalle tre occasioni auto-rizzate alla settimana degli inizi degli anni Novanta (totocalcio, lotto e scommesse ippiche) si è arrivati alle oltre 20 opportunità attuali (15 setti-manali), alle quali si aggiungono gratta e vinci, 242 sale bingo e 200 mila slot machine, secondo una ricostruzione del Conagga. Un’espansione senza freni, benedetta da uno schieramento politico trasversale ai partiti e convinto, anche in buona fede, di poter rimpinguare, in questo modo, le casse dello Stato.
Secondo diversi esperti si tratta però di un grande, pericoloso abbaglio.
«Quest’anno lo stato guadagnerà un miliardo in meno rispetto allo scorso anno, nonostante gli introiti del gioco d’azzardo aumenteranno di 20 miliardi», calcola Fiasco. Più consumi, dunque, meno entrate per l’erario. Perché? Un tale paradosso è la logica conseguenza di una politica fiscale favorevole, applicata dallo stato ai nuovi con-cessionari, per sviluppare un settore da cui sperava e spera di guadagnarci. Ottenendo certo introiti elevati, in valore assoluto, ma assai limitati, se si considera il gettito che il comparto dovrebbe dare, qualora fosse assoggettato al carico fiscale che grava sugli altri settori economici.
«Che il gioco d’azzardo sia una dura necessità per i bilanci statali è una leggenda metropolitana a cui hanno finito per credere anche le classi dirigenti del paese – avverte Fiasco –. I numeri dimostrano che si sta alimentando una bolla speculativa che prima o poi ci scoppierà in mano. Il miliardo in meno che quest’anno mancherà all’appello, quando si chiuderanno i conti, ne è la prima avvisaglia».
Che le previsioni del sociologo sia-no indovinate o meno, una cosa è certa: l’azzardo di stato è diventato un gioco maledettamente serio. Da cui nessun governo, nemmeno tecnico, sembra capace di tirarsi indietro. Al massimo proverà a limitare i danni.
Prima che sia troppo tardi.
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