Gentile Direttore, le chiedo ospitalità per intervenire sul tema del “Business Park”, a cui il suo giornale negli ultimi mesi ha meritoriamente dedicato ampio spazio. E’ nota la posizione di Legambiente contro l’ipotesi di consumare quasi 40 ettari di quel “bene comune” che è il suolo agricolo (la definizione è contenuta nella legge regionale 31/2008 della Lombardia), per un progetto che negli ultimi anni, complice non ultima la crisi economica, ha visto diminuire drasticamente, se non addirittura scomparire completamente, le proprie prospettive e possibilità di riuscita.Lo stop al consumo di suolo agricolo e naturale è un tema che, seppure a fatica, finalmente sta guadagnando la dovuta attenzione nel dibattito pubblico e politico. Lo testimoniano grandi campagne nazionali come quella lanciata dal coordinamento “Salviamo il paesaggio”, il numero crescente di studi e approfondimenti della comunità scientifica (come ad esempio l’attività svolta dal Centro Ricerche sui Consumi di Suolo promosso da INU, Politecnico di Milano e Legambiente) e le numerose proposte legislative volte a limitare il consumo di territorio presentate da Governo, Parlamento e, in Lombardia, dalla Giunta regionale e da diversi gruppi consiliari. Venendo al Business Park e in particolare all’intervista a Gino Tarenzi pubblicata lo scorso 25 marzo, ci permettiamo di avanzare alcuni dubbi sull’utilità e la necessità, nel 2014, di dover consumare quasi 400 mila metri quadrati di suolo agricolo per provare a rilanciare lo sviluppo economico del Lodigiano, quasi come se questa fosse una strada obbligata. L’esempio delle poche altre esperienze italiane di business park, avviate anni fa in un contesto socio-economico completamente diverso da quello attuale, peraltro in aree molto molto più dotate di infrastrutture di quanto lo sia quella di Villa Igea, non sembra particolarmente significativo per dimostrare che il progetto lodigiano, pensato anch’esso alla fine del secolo scorso, abbia ancora oggi particolari chances di successo. Si fatica a capire quale sarebbe il valore aggiunto della proprietà pubblica dei terreni su cui realizzare la trasformazione urbanistica e perché sia sempre stata considerata una sorta di condicio sine qua non per la costruzione di un polo dell’eccellenza agro alimentare a Lodi: si tratta esclusivamente di motivi economici? Riteniamo in questo caso che non rientri tra i compiti degli enti locali quello di vendere terreni alle aziende a prezzi “calmierati” o addirittura fuori mercato. E poi lo stesso trattamento privilegiato potrebbe essere richiesto giustamente anche da operatori di altri settori, che si fa in questo caso? Davvero non esistono altre possibili collocazioni, magari dalle dimensioni meno faraoniche e a minor impatto ambientale, in altre zone di Lodi o del Lodigiano? Ad esempio nelle sempre più numerose aree dismesse o inutilizzate, che se lasciate a loro stesse continueranno a costituire un crescente costo per la collettività. Oppure, come già proposto da altri, presso la “Nuova Fiera di Lodi” e nei capannoni vuoti del PIP di San Grato o, in parte, nel nuovo ambito di trasformazione previsto con superfici abbondantemente sovrastimate in quella stessa area.Riteniamo infine che non si possa ignorare il ridimensionamento previsto per il trasferimento dell’Università a Lodi, che prevede una diminuzione degli spazi della facoltà di veterinaria e la cancellazione della Società di Trasformazione Urbana. In un contesto di tagli drastici ai fondi statali e di forte calo degli iscritti, che hanno anche determinato l’accorpamento del dipartimento di biotecnologie, ci sembra più che ragionevole la scelta di adeguarsi ad un contesto che è completamente mutato negli ultimi 10 anni. Come ha efficacemente sintetizzato l’Assessore regionale all’agricoltura Gianni Fava: “E’ finito il tempo delle cattedrali nel deserto”. Il Business Park di Lodi è stato ideato in stretto collegamento con il progetto di trasferimento e sviluppo degli istituti universitari di veterinaria e agraria. La revisione di questi ultimi dovrebbe indurre anche a un ripensamento delle prospettive di sviluppo di nuove aziende legate a questo comparto.Nel caso in cui non fosse ancora sufficientemente chiaro, a scanso di equivoci, ribadiamo che Legambiente non è mai stata contraria alla costruzione nel Lodigiano di un polo di eccellenza nei settori agroalimentare, biotecnologie e green economy. Il problema è la scelta del luogo e l’esagerata estensione della superficie. Quello che abbiamo sempre contestato e continuiamo a contestare è la scelta di urbanizzare un’area agricola grande quasi come 40 campi di calcio in mezzo alla fertile e produttiva campagna lodigiana. Questo infatti determinerebbe la perdita irreversibile delle principali funzioni ambientali svolte dal suolo libero: quella produttiva, relativa alle biomasse vegetali e alle materie prime della trasformazione agroalimentare; di regolazione idrica, per quanto riguarda il ciclo dell’acqua e la sicurezza idrogeologica; di conservazione della biodiversità; di regolazione climatica e dei cicli fondamentali per la vita, come azoto, fosforo e carbonio. Perché non pensare a un futuro di sviluppo per l’area di Villa Igea che, non solo possa preservare, ma anche rilanciare e valorizzare tutte queste caratteristiche del paesaggio rurale laudense?
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