Carcere. Cattivo maestro

«Sarebbe una banalità dire che la vita è una prigione. Ma che la prigione sia metafora della vita è evidente: quello che impari dentro, lo utilizzi fuori». Così Jacques Audiard, regista parigino, autore de Il profeta (Un prophète), film del 2009, duro e bellissimo. Protagonista è Malik El Djebena, diciannovenne di origini maghrebine, piccolo criminale della banlieue condannato a sei anni di reclusione per un tentativo di rapina a mano armata, da scontare in un grande carcere francese non altrimenti indicato. Il giovane – privo di protezione e analfabeta – nelle prime settimane di detenzione rischia di soccombere: alla violenza, alla corruzione, alla criminalità organizzata. È scelto – senza volerlo, ma senza possibilità di negarsi - come sicario di un “infame” (ovvero di un collaboratore di giustizia) da César Luciani, capo della mafia corsa, che in carcere gode di straordinaria libertà di comunicazione e di azione. Di qui, inizia la trasformazione di Malik: impara a leggere e a scrivere, apprende le regole della malavita, gode di impensabili privilegi. Quando esce, è ormai un criminale spietato. A latere, nella popolazione carceraria descritta da Audiard, spicca il gruppo degli islamici (per i quali Malik è evidentemente un rinnegato): religiosissimi, coesi, capaci di contrattare con la direzione e gli agenti della polizia penitenziaria.«La prigione è la migliore scuola della criminalità. Nella stessa passeggiata puoi incontrare corsi, baschi, musulmani, rapinatori, piccoli spacciatori, grossi trafficanti e assassini. Là guadagni anni di esperienza. All’inizio quando sono arrivato dopo una prima cazzata, mi sono detto smetto tutto. Dopo un po’ di tempo mi sono detto vaffanculo a tutto, mi fanno impazzire. Come volete insegnare la giustizia con l’ingiustizia? La prigione crea l’odio e la prigione ti offre delle reti criminali». No, non sono parole di Malik El Djebena, il «profeta» protagonista del film, personaggio d’invenzione per quanto assolutamente verisimile. Sono parole di Amedy Coulibaly, il terrorista responsabile della morte di cinque persone l’8 e il 9 gennaio scorso a Parigi, il complice dei fratelli Chérif e Said Kouachi, a loro volta autori della strage della redazione di «Charlie Hebdo» (dodici morti). Coulibaly conosceva il carcere, lo conosceva bene: era nato nella periferia parigina (come Malik), aveva compiuto rapine a mano armata (come Malik), aveva scontato alcuni anni di prigione in un grande penitenziario (come Malik), anzi, il più grande di Francia, quello di Fleury-Mérogis. Qui non era stato avvicinato dalla mafia corsa, ma dalla jihad islamica, nella persona di Djamel Beghal, islamista radicale, condannato alla reclusione per aver progettato un attentato contro l’ambasciata degli Stati Uniti a Parigi. Beghal, che aveva già affiliato Chérif Kouachi, in pochi mesi aveva trasformato Coulibaly (inquilino della cella accanto alla sua) in un «soldato del califfato», fino all’epilogo del massacro di Parigi.Una conversione criminale, certo dettata da una scelta (è sempre possibile dire di no), ma comprensibile alla luce del fallimento della propria esistenza e soprattutto dell’esperienza del carcere, già scuola di criminalità, ora di integralismo. Le parole di Coulibaly erano state raccolte nel 2008 (Il Profeta è dell’anno successivo) da Luc Bronner, giornalista del quotidiano francese «Le Monde»: il giovane, allora ventiseienne, era uno dei cinque detenuti che di nascosto avevano fotografato e ripreso il degrado e la violenza del carcere di Fleury-Mérogis, per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’inciviltà di quel luogo di detenzione e, più in generale, dei penitenziari francesi.Il 26 gennaio scorso, lo stesso «Le Monde» ha pubblicato la testimonianza di un ex recluso ateo, Franck Steiger, che ha scontato sei anni in otto diverse prigioni francesi; secondo Steiger, le condizioni della detenzione sono determinanti nel produrre conversioni all’islam radicale: «la mancanza di rispetto, le violenze, le misure di ritorsione: tutto questo produce l’odio». Lo conferma Missoum Chaoui, cappellano carcerario in Ile-de-France: molti ristretti non hanno alcuna protezione, «si trovano in uno stato di debolezza e precarietà, hanno bisogno di ascolto e di disciplina per non andare alla deriva»; per questi la religione diventa un mezzo per porsi al centro di un universo carcerario nel quale altrimenti soccomberebbero. In gennaio, in Francia, i cappellani carcerari musulmani erano 182, a fronte di 680 cattolici e 71 ebrei. La loro presenza è stata incrementata negli ultimi due anni «al fine di tranquillizzare la detenzione e diffondere un islam illuminato», ha affermato il Ministero della Giustizia francese.Ma il punto non è questo: il punto è rendere più umane e più oneste le carceri, ove domina il degrado ed è presente la corruzione, in Francia come in Italia; anzi, soprattutto in Italia, perché al nostro paese il Consiglio d’Europa ha dato un anno di tempo (che scadrà il 5 giugno 2015) per portare a compimento il percorso di riduzione del sovraffollamento carcerario, e non solo. Che le carceri siano «cattive maestre» è provato da una rilevazione dello stesso Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) del 2007: la recidiva di chi sconta la condanna con misure alternative è del 19%, quella di chi sconta la pena in prigione sale al 68%. Meno carcere, più sicurezza, dunque, e minor impiego di risorse, poiché è stato calcolato che la diminuzione di un solo punto percentuale della recidiva corrisponde a un risparmio di circa 51 milioni di euro all’anno. Meno carcere e più umanità: «il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. – scrive Cesare Beccaria in Dei delitti e delle pene, duecentocinquanta anni fa - Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate? Il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali». Nell’interesse dell’umanità.

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