Carceri italiane, tutti hanno - la loro - ragione

Un tema grande, come quello di rendere giustizia a chi ne ha bisogno, rischia di essere ancora una volta rinviato dalle diatribe politiche. Ormai è un ricordo l’ultima amnistia del ’90 così come l’indulto del 2006.Dire no all’amnistia e all’indulto, oggi, è l’ennesima prova che prevalgono tra gli onorevoli e nelle pieghe oscure del nostro sentire collettivo, pulsioni negative che vanno dalla gretta chiusura, all’arroganza fino al razzismo.Tutti ci lamentiamo e tutti abbiamo – le nostre – buone ragioni.L’Europa si lamenta di noi e tra una norma sulla lunghezza delle banane e un’ammenda sui metri quadri delle porcilaie, ritiene che 6 persone in 12 metri quadrati compreso angolo cottura e turca – media italiana – sia contro ogni diritto della persona.Chi dirige un carcere, ultima struttura “totale” che esiste in Italia si lamenta della mancanza di personale, ed è vero. Gli agenti si lamentano delle condizioni in cui devono lavorare, ed è vero. Che siano in pochi è parzialmente vero perché abbiamo nella nostra nazione il più alto numero di agenti rispetto alla media europea e mentre altrove le carceri sono strutturate in maniera tale che 2 agenti possano controllare 200 persone, da noi ci sono corridoi e scantinati frutto di continui adeguamenti edilizi che richiedono più sorveglianza. Vero che alcuni agenti sono impiegati in uffici con ruoli tra i più improbabili, che molti soffrono di malattie psicosomatiche per una inadeguata preparazione perché a fronte di certi reati commessi non basterebbe lo psicologo, mentre talvolta basterebbe una battuta, come quando sono riuscito a far sorridere un imprenditore dicendogli che se era in carcere voleva dire che aveva rubato poco… Si lamentano della macchina della giustizia perfino i magistrati “stipendiati”, messi lì per giudicare persone già condannate dalla vita, che non rifuggono la stampa e talvolta ricorrono alla “giustizia spettacolo” come ha detto il ministro Severino aggiungendo che pure gli avvocati non scherzano. Perfino i cappellani si lamentano – tra poco avremo il convegno nazionale e sentiremo Papa Francesco – quando dicono che il carcere non è l’unico modo di far scontare la pena ma poi concretamente non sanno andare oltre pur essendo in prima fila con i volontari per ritagliarsi uno straccio di misure alternative al carcere.“…e quando dico pene non penso solo a quelle carcerarie…” con questa uscita, l’innocente allora sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino, che suscitò l’ilarità di tutti tranne la sua e quella del compito Cardinale, centrava il vero problema, che è quello del tipo di società che abbiamo in mente e che Cesare Beccaria sosteneva si potesse immediatamente dedurre dalla situazione delle carceri oltre che dalla capacità di accoglienza di chi prima o poi ritorna alla libertà.Io sono sempre più confuso sulla missione del cappellano in carcere, diviso fra l’emozione e la regola, tuttavia, come si fa nella vita quotidiana, quando si incontra la complessità si deve raddoppiare la buona volontà. Come diceva il mio insegnante di morale don Mario Grossi: “Si contempla l’ideale, si vede il reale e si fa il possibile” massima che allora mi sembrava un po’ banale e che oggi mi sembra uno strumento per trasformare un sogno in realtà, “l’utopia possibile” dell’indimenticabile don Leandro Rossi.

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