Il moltiplicarsi delle emergenze nel mondo, in particolare conflitti armati e guerre, scarsamente ripresi dal circuito mediatico tradizionale, non provoca solo violenze e fenomeni migratori improvvisi, ma tutta una serie di dinamiche di cui non si parla affatto, a partire da quelle che riguardano gli aiuti alimentari. L’aiuto alimentare viene utilizzato normalmente per due scopi; per rispondere a crisi alimentari provocate da disordini interni e conflitti o da emergenze climatiche (siccità, alluvioni, ondate di freddo) e come meccanismo di sostegno alle azioni di sviluppo, per consentire agli agricoltori di ridurre il carico di lavoro in funzione della possibilità di dedicare una parte del loro tempo e delle loro energie all’educazione, alla formazione professionale o ad attività alternative per produrre reddito.La grande maggioranza dell’aiuto alimentare erogato nel mondo viene dagli Stati Uniti, che rendono disponibili grandi quantità di cereali, sia come dono derivante dall’acquisto, da parte del governo, degli eccessi di produzione, sia tramite acquisti diretti, da parte delle agenzie umanitarie, presso produttori indicati dal governo.Ma i regolamenti americani in materia di aiuti alimentari, che risalgono agli anni Cinquanta, prevedono regole precise per l’acquisto da produttori “indicati” e, comunque, l’origine americana del prodotto anche quando venga donato; inoltre sanciscono che il trasporto avvenga tramite navi “preferite” dal governo americano. E questo anche qualora il cibo fosse disponibile, e a prezzi più convenienti, in paesi più vicini all’area colpita dalla crisi.Proprio queste regole impediscono al Programma alimentare mondiale (Pam) di acquistare il cibo da altri venditori. Il tutto comporta la necessità di provvedere al trasporto per molte migliaia di chilometri, provocando ritardi anche di 4-5 mesi nella consegna degli aiuti, oltre a un aumento del costo dell’intera operazione. Questo si traduce spesso in un aumento dell’insicurezza alimentare per diversi mesi, il che spinge le vittime delle crisi alimentari a fare scelte negative, come vendere le proprietà o ipotecarle, indebitarsi o vendere sesso in cambio di cibo. Oppure fuggire.Oggi i governi sono molto criticati nella loro veste di donatori alimentari: per la scarsa efficienza del sistema da loro stessi creato; perché mantengono in vita forme d’aiuto che negli anni sono state in gran parte superate da metodi migliori; per l’uso principalmente bilaterale (da stato a stato) dell’assistenza alimentare; infine perché continuano a utilizzare quasi esclusivamente l’aiuto in natura anziché quello in denaro, di gran lunga più flessibile ed efficiente. In generale, l’aiuto in cibo ha sempre qualche effetto negativo sul mercato.È minimo nelle economie molto povere, nei paesi in cui, in assenza di aiuti, la gente rinuncia a mangiare perché troppo povera. Ma in società in condizioni anche leggermente migliori, magari in una fase di iniziale ripresa dopo la crisi, l’arrivo tardivo degli aiuti può paralizzare il mercato, scoraggiare la ripresa della produzione (perché coltivare se non c’è modo di vendere?) e danneggiare l’esportazione dai paesi produttori. Un effetto deprimente del mercato e della produzione, dunque, che mina le prospettive di vita degli agricoltori locali, aggravando il ciclo della povertà, mentre il recupero della capacità produttiva e la riattivazione dei mercati locali sono fattori centrali della ricostruzione e dell’uscita dalla crisi.Ecco dunque un altro ruolo delle organizzazioni non governative: l’indipendenza e “l’imperativo umanitario”, di cui sono portatrici, permettono loro di criticare le Nazioni Unite e i singoli governi, in particolare quelli che utilizzano l’aiuto alimentare anche con finalità di sussidio surrettizio all’agricoltura nazionale e per ampliare i mercati ai loro prodotti, sino a protrarlo oltre il tempo strettamente necessario. L’azione imprescindibile di advocacy rende spesso scomode le ong. E quindi bersagliate dalle “macchine del fango”, servili verso i poteri forti.
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