Crimini dei deboli e... dei potenti

A poche settimane dalla dichiarazione del Ministro della giustizia, Paola Severino, secondo cui un terzo dei detenuti nelle carceri italiane potrebbe godere di misure alternative, il numero delle persone ristrette è ancora quasi 67.000 (66.528), a fronte di una capienza “regolamentare” di circa 45.000 posti (45.584). A oltre un anno dal “Satyagraha” - lo sciopero della fame e della sete promosso il 14 agosto 2011 da Marco Pannella e dai Radicali italiani con associazioni attive nella tutela dei diritti o che operano in ambito carcerario (A buon diritto, Ristretti orizzonti, Antigone) e sindacati di polizia penitenziaria - nulla è cambiato. Una situazione di evidente illegalità, tanto più grave in quanto ne è responsabile lo Stato (uno Stato, per di più, recidivo), che proprio la legalità dovrebbe garantire, in particolare ai cittadini che gli sono affidati in custodia. Spesso, invece, non ne garantisce neppure la nuda vita: il numero dei suicidi all’interno dei penitenziari è circa sette volte superiore rispetto a quello che si registra “fuori”: nel solo 2012 sono morte in carcere, di carcere, 105 persone, di cui 37 suicide (fonte: Ristretti orizzonti, aggiornamento al 26 agosto 2012).Eppure il carcere resiste, grazie al consenso sociale di cui gode. La sensazione diffusa nell’opinione comune è che le persone detenute meritino quello che stanno passando: invisibilità e disperazione.Ma chi sono le persone detenute, quali persone entrano in carcere oggi? Lasciamo da parte colpevoli di associazione di stampo mafioso (416 bis), narcotrafficanti di livello internazionale, autori di crimini efferati e affini, per i quali risultano non proponibili pene differenti rispetto alla detenzione: sono un numero residuale. Una buona parte dei 67.000 (ovvero 26.307) si trova in situazione di custodia cautelare, ovvero non sconta una condanna definitiva ed è dunque, tecnicamente, innocente (fonte: Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, aggiornamento al 30.6.2012). Sulla base delle statistiche pregresse, quasi metà di questi sarà assolta (e lo Stato sarà chiamato a risarcire il danno dell’ingiusta detenzione). Oltre un terzo dei 67.000 (27.001) è detenuto per reati connessi all’uso di sostanze stupefacenti: si tratta di (giovani) uomini e donne che avrebbero bisogno di cure e terapie, non di celle e prigioni. Una quota piccola ma significativa dei 67.000 (2.150) è costituita da cittadini stranieri già irregolarmente soggiornanti in Italia, che pertanto scontano una condizione, non un reato. Altri, infine (gli esempi sono reali), sono incarcerati per tentato furto di scarpe sportive, ubriachezza, molesta, oltraggio a pubblico ufficiale. Azioni riprovevoli, certo, ma già nel 1764 Cesare Beccaria raccomandava che tra reato e pena ci fossero gradualità e proporzione.In realtà, con eccezioni, oggi in carcere entrano uomini (soprattutto) e donne già respinti in quella «zona sociale carceraria» (secondo la definizione di Vincenzo Ruggiero) che in tempo di crisi economica si allarga paurosamente: sono gli ultimi, gli oppressi, i dannati (la denominazione si scelga in base alla scuola di pensiero preferita).Ci sono, d’altra parte, persone che in carcere non entrano proprio, nonostante abbiano commesso reati, forse perché appartengono a categorie altre rispetto a quelle compulsate in precedenza: non sono né ultimi, né oppressi, né dannati. Il discorso rischia di cadere nella demagogia, di cui certo non si avverte il bisogno, pure è impossibile non pensare ai crimini dei cosiddetti «colletti bianchi», autori di reati impalpabili che riguardano la finanza illegale e illecita: corruzione (aggravata dalla transnazionalità), falso, frode, riciclaggio, inquinamento (dettato dalla logica del profitto), agiti con spregiudicatezza che presuppone impunità e neppure percepiti come tali, per quanto responsabili di morte e rovina.E anche agli autori di reati ben più tangibili, duramente tangibili: per esempio gli agenti delle forze dell’ordine riconosciuti colpevoli di aver infierito su inermi alla scuola Diaz di Genova nel luglio 2001, che non sconteranno un solo giorno di carcere. Meglio per loro. Perché sia chiaro che non chiediamo più prigione per tutti. Il contrario: che il carcere sia l’extrema ratio per 416 bis e affini; per gli altri, che sono quasi tutti, si pongano in essere le misure alternative già consolidate e se ne sperimentino di nuove, senza aprire nuove carceri e anzi - reimpiegando il personale nei servizi dell’esecuzione penale esterna - chiudendo alcune di quelle esistenti sul territorio nazionale.Perché il carcere non serve a chi sta “dentro” ma a chi sta “fuori”: rafforza il senso di comunità e di appartenenza dei cittadini attraverso l’esclusione e il disprezzo per i detenuti. È un luogo di potere, non di rieducazione, in spregio all’articolo 27 della Costituzione repubblicana, che proprio nella finalità rieducativa indica non un elemento accessorio, ma l’elemento strutturante della pena, altrimenti inumana.

(2 - continua. Il primo articolo è stato pubblicato lo scorso 3 settembre)

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