«La parola è madre, non figlia del pensiero», scrive Karl Kraus, autore del dramma Gli ultimi giorni dell’umanità, i giorni che preludono all’età del massacro, all’avvento del nazismo in Germania e dei totalitarismi in Europa. Lo studio della parola, delle parole organizzate nel discorso pubblico, consente infatti di comprendere non tanto ‘perché’ – non è delle intenzioni che si risponde, ma delle azioni e delle loro conseguenze, soprattutto a chi, incolpevole, le subisce – ma ‘come’ «questo è stato possibile». Il riferimento è evidentemente alla Shoah, al massacro di undici e più milioni di donne e uomini di ogni età, non solo ebrei, come noto, ma anche rom, omosessuali, testimoni di Geova, prigionieri militari, oppositori politici, partigiani e resistenti. «Al fine di ricordare» il Parlamento italiano, con la Legge 211/2000, ha istituito il Giorno della Memoria, riconosciuto nel 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, «affinché simili eventi non possano mai più accadere».Il ‘come’ si articola in modalità molteplici e concorrenti: le guerre coloniali del primo Novecento (nello specifico italiano la guerra di Libia), che hanno trasformato i civili in obiettivi militari, in quanto potenziali sostenitori di ribelli e resistenti all’occupazione; i nazionalismi aggressivi, che contengono in sé la matrice del razzismo, poiché istituiscono gerarchie tra popoli e persone e disumanizzano gli avversari per eliminarli più facilmente; la diffusione di parole tossiche, le parole dell’odio e della dittatura, e la censura di altre parole che potrebbero fungere da antidoti, le parole della ragionevolezza e dell’opposizione ridotta al silenzio. L’uso della parola comporta infatti una grande responsabilità, spesso trascurata. E nelle dittature del Novecento la lingua è stata un formidabile strumento di propaganda, di manipolazione e ottundimento dell’intelligenza individuale, di trasformazione della realtà. Uno strumento disonesto e ingannevole, qual è talvolta anche la lingua del tempo presente, la lingua del discorso pubblico, che dovrebbe essere fondata invece su verità e correttezza.È questo uno dei possibili percorsi di ricerca che suggerisce la ricorrenza del Giorno della Memoria, a sedici anni dalla sua istituzione: ricordare, infatti, non basta, non basta più. La narrazione dello sterminio, inizialmente taciuta o contenuta nella dimensione familiare, è divenuta pubblica a qualche decennio di distanza, grazie all’imperativo di non dimenticare, esaurendosi poi, però, quasi esclusivamente nella memoria delle vittime e dei testimoni, fonti documentarie necessarie ma non sufficienti.Per scongiurare che «il male assoluto» trovi nuove possibilità di declinarsi nella storia umana, la memoria non basta. Come scrive Luca Rastello, che fu grande conoscitore delle guerre balcaniche, «tutti i nazionalismi sterminatori dell’ultimo secolo hanno avuto la memoria come propria bandiera»: dal mito della grande Germania, attraverso le presunte identità etniche del paese un tempo chiamato Jugoslavia, al passato universale (per altro mai esistito) del califfato islamico. Affinché la memoria non si trasformi in rituale consolatorio, o in occasione di esibizione politica e rappresentazione mediatica, per quanto animate da buone intenzioni, occorrono la comprensione e la consapevolezza che soltanto la ricerca storica può dare, con un approccio critico e problematico. Occorre indagare il ‘come’, nelle sue differenti articolazioni.«Dopo l’ultimo testimone» - è il titolo di un bel saggio di David Bidussa -, quando si sarà spenta l’ultima voce di chi è riemerso dal lager, sarà necessario consegnare l’eredità della memoria alla storia, nella quale le narrazioni individuali si ricompongano, accanto ad altre fonti, documenti, analisi, in un insieme universalistico ma non concluso, capace di accogliere nuove interpretazioni e di parlare alla coscienza civile del presente attraverso la rappresentazione del passato.Soltanto così potremo ragionevolmente sperare che «simili eventi non possano mai più accadere».
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