«Io sto con le vittime». Espressione di sicuro effetto, senza possibilità alcuna di contraddittorio. Nella “Repubblica del dolore” – così denominata dallo storico Giovanni De Luna, in un saggio illuminante – la memoria pubblica si fonda sul lutto che scaturisce dal ricordo (mediatico) delle vittime, che emoziona, commuove, suscita consenso.Ecco dunque che le “vittime”, nella loro sacrosanta richiesta di verità e giustizia – agita di persona o attraverso i propri familiari, tanto più urgente in Italia ove i processi hanno durata irragionevole – assumono uno statuto assoluto e immutabile: vittime per sempre. Così come, d’altra parte, i colpevoli: colpevoli per sempre. Non è così. E non soltanto perché la narrazione processuale sottrae i reati dal contesto in cui sono stati commessi, riconducendoli alle categorie previste dal codice di procedura penale (che per altro cambia nello spazio e nel tempo); perché nel corso dei tre gradi del giudizio sentenze e disposti possono essere modificati o perfino rovesciati; perché, in ultima analisi, la verità giudiziaria quasi mai corrisponde alla “semplice verità”. Non solo. Un uomo o una donna non si esauriscono nella violenza subita, per quanto atroce, né nel crimine compiuto, per quanto efferato.“Vittima” è chiunque patisca un dolore, una sofferenza inflitta in modo intenzionale e gratuito, inutile. Vittima è chiunque subisca un trattamento inumano e degradante che ne violi i diritti umani e ne comprometta la dignità e l’integrità.Vittime, nell’Italia odierna, sono le donne e gli uomini detenuti, quei 54.414 (fonte: DAP al 31.07.2014) stretti in 49.402 posti “regolamentari” (assai meno quelli effettivi). Vittime sono tutti i reclusi, che a far data dal 13 gennaio 2010, quando la Presidenza del Consiglio dei Ministri dichiarò «lo stato di emergenza conseguente all’eccessivo affollamento degli istituti penitenziari presenti sul territorio nazionale», hanno subito la tortura del sovraffollamento (erano allora 64.840, alla fine dell’anno toccarono il massimo storico di 67.961 – fonte: DAP): ventidue ore in cella con meno di tre metri quadrati a disposizione per ciascuno.Vittime. A dispetto dei parlamentari che il 24 luglio, quando la Camera dei Deputati ha approvato il Decreto Legge 92/2014, sotto la giacca di ordinanza hanno ostentato una T-shirt con la scritta «Io sto con le vittime». Il decreto, «recante disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori a favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali […]», dopo l’approvazione da parte del Senato il 2 agosto, è ora legge. Vittime per le quali è stato fissato «il prezzo della tortura», come affermano i Radicali Italiani, per altro irrisorio: un giorno di riduzione di pena per ogni dieci giorni vissuti in carceri sovraffollate; oppure, per chi è uscito dal penitenziario, otto euro per ogni giorno di prigionia inumana e degradante.Vittime perché tali le riconosce in primis la Corte Europea dei diritti umani, attraverso le sentenze Sulejmanovic del 16 luglio 2009 e Torreggiani dell’8 gennaio 2013, fino alla promozione con debito dell’Italia del 5 giugno 2014, che ha imposto al nostro paese l’attuazione di un “rimedio compensativo” a parzialissima riparazione della tortura inflitta. Va detto che la medesima Corte, nelle settimane successive, ha nuovamente condannato l’Italia per i maltrattamenti compiuti dalle forze dell’ordine ai danni di una persona in stato di arresto (senza Alberti del 24 giugno) e per le violenze agite da parte di agenti della polizia penitenziaria su un centinaio di detenuti della Casa circondariale di Sassari, nell’aprile 2000 (sentenza Saba del 1 luglio 2014): in questa occasione i reclusi furono costretti a denudarsi, insultati, minacciati e in taluni casi anche picchiati; gli agenti riconosciuti colpevoli, invece, furono successivamente prosciolti per sopravvenuta prescrizione dei reati.Vittime perché tali le riconosce l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, attraverso la delegazione guidata dal norvegese Mads Andenas, che dal 7 al 9 luglio ha effettuato una visita di monitoraggio delle carceri italiane (dopo una prima nel 2008), passata sotto il silenzio dei media nazionali. I cinque punti del memorandum redatto dalla delegazione rappresentano un nuovo, allarmante monito per il nostro paese (nel quale, in spregio alle vittime, la tortura non costituisce reato). Eccoli: 1. Adozione di misure straordinarie, quali soluzioni alternative, al fine di eliminare l’eccessivo ricorso alla detenzione e proteggere i diritti dei migranti. 2. Quando gli standard minimi non possono essere altrimenti rispettati, procedere con la scarcerazione. 3. Rispetto da parte delle autorità italiane delle raccomandazioni ONU del 2008 e di quanto statuito dalla sentenza Torreggiani. 4. Riconoscimento del carattere di urgenza delle raccomandazioni formulate dal Presidente Giorgio Napolitano nel 2013, incluse le proposte in materia di amnistia e indulto, per garantire la conformità al diritto internazionale. 5. Rammarico per i rimpatri forzati dei migranti e preoccupazione per la durata della detenzione amministrativa e per le condizioni detentive nei Centri di identificazione ed espulsione.Vittime, infine, perché tali le riconosce la coscienza civile e l’etica cristiana (papa Francesco sostiene infatti che la tortura è «un peccato mortale»). E questo basta.I diritti umani sono inalienabili: nessuno, per quanto orribile sia il crimine che ha compiuto può esserne privato. La pena consiste nella privazione della libertà (e deve tendere alla rieducazione del condannato), non nella riduzione dello spazio vitale, nell’assenza di formazione e attività lavorativa, nella mortificazione degli affetti, nella salute compromessa o negata, nel grigiore di giorni vuoti sempre uguali a sé stessi. Giudicare una persona meritevole di dolore e sofferenza intenzionali e gratuiti non è mai giusto, così come non è giusto reagire al male con il male.Davanti al dolore degli altri possiamo voltare (e alzare) le spalle, oppure provare empatia e sgomento. Ma, anche, comprendere (che non significa giustificare) e tentare una riparazione. È questa “terza via” che vogliamo e dobbiamo percorrere.
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