La vicenda è nota. Il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, interviene presso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), chiedendo attenzione per lo stato di salute di una detenuta in custodia cautelare, Giulia Ligresti, appartenente a una famiglia a cui è legata da antica amicizia. Verificate le condizioni della reclusa, il magistrato competente dispone la concessione del beneficio della detenzione domiciliare (che, comunque, detenzione è).Si scatena la polemica, nel merito della quale non ritengo opportuno prendere posizione. Comprendo e condivido sia le ragioni di Luigi Ferrarella, giornalista esperto di questione carceraria («Corriere della sera», 2 novembre), sia quelle di Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale (stessa testata, due giorni dopo). Il primo afferma che «sensibilizzare la Giustizia non può restare privilegio di chi abbia il numero di telefono del ministro o la ventura di conoscere un giornalista»; il secondo apprezza invece le qualità di «umanità ed equilibrio» dimostrate da Annamaria Cancellieri, capace di interessarsi alle «persone» e non solo alle «procedure». La querelle rischia di essere deviante: perché la detenzione non è mai uno strumento di giustizia sociale e l’uguaglianza non è tale se consiste nella negazione dei diritti. Più saggio, dunque – questo l’invito di Ornella Favero, direttrice di «Ristretti Orizzonti» - trasformare la vicenda in occasione per umanizzare le carceri italiane.Anche i numeri sono noti a chi legge: 64.758 persone detenute (fonte: DAP al 30.09.2013) a fronte di una “capienza regolamentare” di 47.615. Indice di sovraffollamento del 136%. 2.223 i reclusi morti, di cui 794 suicidi, dal 1° gennaio 2.000 al 6 novembre 2013 (fonte: Ristretti Orizzonti). Età media 39 anni. Il rapporto tra suicidi accertati e morti tout court è di oltre 1 a 3: 66 a 186 nel 2011 (annus horribilis), 42 a 136 in questo 2013 non ancora al termine. Internati con un nome, un volto, una storia, ai quali l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere restituisce dignità e identità: Walter Luigi Mariani, 58 anni, paraplegico, morto carbonizzato nell’incendio della sua cella (Casa di reclusione di Milano-Opera, 31 agosto); Egidio Corso, 81 anni, morto in seguito allo sciopero della fame iniziato per la mancata concessione di una misura alternativa (Casa circondariale di Ferrara, 26 ottobre); Zsolt Varta, 28 anni, condannato a quattro mesi per “resistenza a pubblico ufficiale”, morto – recita il referto - per arresto cardiaco (Casa circondariale di Trento, 29 ottobre). Morti per negligenza e disattenzione, al pari di tanti altri (fonte: Ristretti Orizzonti).Qualcosa non va, è evidente. Il sovraffollamento, le situazioni cliniche incompatibili con la detenzione, il pregresso della tossicodipendenza contribuiscono a peggiorare in modo talvolta irrimediabile le condizioni di salute delle persone recluse. Non solo: in carcere ci si ammala di malattie infettive, in particolare epatite C (positivo oltre il 30% della popolazione detenuta) e di disturbi psichici (analoga percentuale). I danni derivati dall’abuso di nicotina (il numero di fumatori è altissimo) e dall’alimentazione poco sana (poco più di tre euro al giorno per tre pasti) determinano per i ristretti rischi maggiori di sviluppare malattie cardiovascolari e oncologiche rispetto a chi è fuori dal carcere. Ne è testimone Roberto Monarca, presidente della Scuola di formazione della Simpse, Società italiana di medicina e sanità penitenziaria, ora alla guida di European Federation for Prison Health, agenzia europea per la salute in carcere, che registra l’adesione di Italia, Spagna, Francia, Belgio, Inghilterra, Svizzera, Austria e Germania. Iniziativa necessaria, ma non sufficiente.Occorre infatti dare seguito ai disegni di legge depositati in Parlamento, istituendo il Garante nazionale per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e delle persone private della libertà personale: una figura di garanzia, indipendente, terza ed esterna all’amministrazione penitenziaria, presente negli ordinamenti di ventitré paesi dell’Unione europea e nella Confederazione Elvetica: «perché non si può più pensare – scrive Ornella Favero - che la vita delle persone recluse sia affidata alla sensibilità di qualche funzionario più attento»; o ancora, alla conoscenza di un numero di telefono dal potere salvifico.Occorre anche dare seguito ai provvedimenti di natura legislativa già annunciati, in particolare alla revisione della legge sulle droghe.E occorre infine dare seguito alle misure strutturali per diminuire il sovraffollamento dei penitenziari italiani, presentate il 4 novembre a Strasburgo dal ministro della Giustizia: riduzione dei flussi d’ingresso, mediante l’adozione di misure alternative e la concessione della libertà anticipata; istituzione della detenzione aperta, già prevista dalla circolare DAP del 18 luglio in materia di “sorveglianza dinamica”; potenziamento delle strutture con la creazione di spazi lavorativi, per sottrarre i reclusi all’inazione che è triste caratteristica del non-tempo penitenziario. Tanto è ancora da fare per «umanizzare» la detenzione.La pena consiste nella privazione della libertà. Che, dunque, le persone ristrette non abbiano libertà è insito nel dettato costituzionale. Non che siano ostaggi. Ostaggi del sovraffollamento, delle cattive condizioni di salute, della conoscenza o meno di un numero di telefono. Ostaggi delle direzioni, che hanno potere quasi assoluto e discrezionale, per esempio nel disporre assegnazioni e trasferimenti; ostaggi di educatori e assistenti sociali, che redigono relazioni finalizzate all’ottenimento di misure alternative alla detenzione; ostaggi persino dei volontari. Ostaggi, insomma, di chi possa esercitare una qualche forma di potere su di loro, che non ne hanno alcuno. Anche se non lo dicono. Perché non possono dirlo.«Prima del mio arresto – scrive Eduard Limonov nel suo memorabile Il trionfo della metafisica – quando guardavo in TV il modo in cui i giornalisti intervistavano i prigionieri di guerra o i detenuti, mi meravigliavo sempre del grado di cinismo della società. Cosa può mai dire delle sue condizioni un povero prigioniero (e anche un detenuto lo è) che si trova nelle mani e in totale balia dei suoi aguzzini? Quando dice “Qui da noi va benissimo” sta mentendo per necessità, è ovvio».
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