Disuguaglianze diffuse e crescenti

L’Italia è uno dei Paesi che fa registrare i più elevati livelli di disuguaglianza nella distribuzione dei redditi. Lo studio Gini-Growing inequality impact commissionato dalla Ue, nell’ambito del VII Programma quadro, a un pool di gruppi di ricerca di diverse università europee, ha infatti dimostrato che la distribuzione della ricchezza italiana non solo sta seguendo un trend crescente di concentrazione ma si è ormai stabilizzata su livelli di disparità superiori alla media dei Paesi Ocse. Dall’analisi emerge che l’Italia ha un indice Gini di 0,34, ciò significa che due individui, selezionati casualmente tra la popolazione, fanno registrare una distanza media di reddito disponibile pari al 34% del reddito medio nazionale. Sui media e nelle conversazioni quotidiane, sentiamo sempre più spesso nominare “le famiglie che non ce la fanno ad arrivare a fine mese”. Con questa espressione si devono intendere quei nuclei familiari che sono costretti a intaccare i propri risparmi o contrarre debiti per far fronte alle spese quotidiane. Analizzando i dati Istat compresi nell’Indagine nazionale sulla fiducia dei consumatori , possiamo osservare che dal 1980 al 2002 la percentuale delle famiglie obbligate a far ricorso a risparmi o debiti è rimasta costante aggirandosi intorno al 10%. Dal 2002, con l’inizio della circolazione dell’Euro e con la stagnazione della produttività del nostro sistema economico, tale valore incominciò a crescere fino a toccare valori prossimi al 15%. La percentuale delle famiglie in difficoltà è poi aumentata considerevolmente con la crisi del 2007/2008, facendo segnare una rapida impennata nel biennio 2011-2012 e raggiungendo il massimo storico a Gennaio 2013 (33,5%). Negli ultimi due anni il trend sembra essersi invertito, virando verso una lenta diminuzione (29,73% a gennaio 2015). Ricerche sulla povertà assoluta iniziarono solo nel 1997 e si focalizzarono sul bisogno di conoscere il numero delle famiglie che non sono in grado di acquistare un paniere di beni e servizi indispensabili ad assicurare il minimo vitale. La povertà relativa in Italia è cresciuta sensibilmente tra l’inizio e la fine degli anni Ottanta, passando dall’8% al 15%. Con il decennio dei Novanta l’incidenza della povertà relativa è diminuita mantenendo, dal 1997 a oggi, valori pressoché stabili e compresi tra l’11-12%. A preoccupare è invece l’incidenza della povertà assoluta, aumentata tra il 2005 ed il 2014 del 2%, si è infatti passati dal 4% all’6% il che corrisponde a circa 1 milione e 470 mila famiglie, per un totale di 4 milioni e 102 mila persone. La società italiana la possiamo suddividere in tre sulla base di due fattori:1.il lavoro: una condizione essenziale per promuovere l’inclusione e la coesione sociale, tanto che la percentuale di popolazione che vive in famiglie a bassa intensità di lavoro rappresenta una delle tre componenti proposto in sede europea per monitorare i progressi nella lotta alla povertà e all’esclusione sociale.2.la rappresentanza: l’incidenza di una determinata componente sociale in base a quelli che sono i suoi legami con il mondo politico, sindacale, delle categorie e del terzo settore. Questi due fattori ci devono far riflettere su chi compone la categoria degli svantaggiati, che sono coloro che non hanno mai trovato una reale rappresentanza. Possiamo mutuare la definizione di “Terza società”, quella degli esclusi, di chi non ha un impiego pur essendo disposto a lavorare, ma anche di chi lavora in nero, senza le minime garanzie. Quella che potrebbe ai più distratti sembrare una categoria residuale è invece un agglomerato che conta nove milioni di cittadini, poco meno del 30% della forza lavoro allargata. La terza società mostra un andamento anticiclico, il numero degli esclusi aumenta nei periodi di recessione mentre diminuisce durante le fasi di espansione economica. Non è casuale che nell’ultima decade la consistenza della terza società e progressivamente cresciuto (+1.9 milioni di individui) seguendo un’inerzia costante nonostante le azioni in contrasto delle “Shadow economy” che hanno cercato di arginare la propensione, molto comune nei periodi di crisi, allo sviluppo dell’economia sommersa. Il peso della società degli esclusi in Italia (28,8%) è sensibilmente più elevato del valore medio ponderato nell’area OCSE (17,2%) e dei paesi dell’Unione Europea (20,2%), peggio di noi fanno solo Grecia, Spagna Croazia e Bulgaria. La penalizzazione della terza società italiana tocca poi corde drammatiche legate al fatto che in questa condizione di svantaggio giacciono soprattutto i giovani di età compresa tra i 20 ed i 34 anni e le donne, che continuano ad avere molti più ostacoli per consolidare la loro posizione all’interno del mercato del lavoro. Anche i dislivelli territoriali sono impressionanti: quasi la metà (46,7%) di questa comunità di svantaggiati risiede al sud, anche se è interessante notare che, con lo scoppio della crisi, la terza società si è espansa ad un ritmo maggiore nelle regioni del Nord-Ovest e del Nord Est (+29,0% e +28,6%) rispetto a quanto avvenuto nel meridione (+24%). Disoccupati, lavoratori in nero, lavoratori atipici: chi vuole monitorare l’andamento della disuguaglianza in Italia non può non fare i conti con lo studio della composizione della “terza società”. Un ulteriore indicatore per comprendere le dinamiche delle disuguaglianze è quello del “top income”, cioè coloro che percepiscono redditi elevati normalmente identificati nell’1% più ricco della popolazione o in percentuali ancora più piccole come lo 0,1%. Nel nostro Paese, nel periodo 1974-2009, l’aumento della quota di ricchezza detenuta dal top 1% o 0,1 è stata rilevante (rispettivamente +1,9% e +0,9. Così, seppur l’Italia non sia un Paese in cui la ricchezza relativa è più diffusa, questa è cresciuta considerevolmente proprio a partire dalla fine della cosiddetta “Prima Repubblica”. Il trend oscillatorio delle disuguaglianze è tornato a crescere in seguito alla crisi del 2007-2008 che ha indebolito i redditi del ceto medio basso allontanandoli ancor di più dai percettori dei redditi più alti. Questa considerazione è supportata da un recente Rapporto Ocse che segnala come in Italia, diversamente da altri Paesi, la crisi ha comportato, nei suoi primi anni, un aumento delle distanze tra il top 10% ed il bottom 10% della popolazione. Per correggere il problema delle disuguaglianze diffuse e crescenti dovremmo propendere per lo strumento fiscale, ipotizzando l’introduzione di un’imposta internazionale sui patrimoni. Altra strada percorribile per arginare la concentrazione della ricchezza proveniente dai redditi passivi è, senza dubbio, l’opposizione forte e sistematica all’evasione fiscale, cioè dell’occultamento nei cosiddetti “paradisi fiscali” di porzioni di patrimonio, in particolare finanziario. Negli ultimi anni, le campagne contro gli evasori hanno visto mitigare i propri effetti grazie a clausole favorevoli e premiali verso chi doveva regolarizzare la propria situazione. Scudi fiscali e sgravi hanno favorito i grandi investitori e diverse imprese piuttosto che stabilizzare i rapporti tra contribuente e fisco.Dobbiamo rimarcare la convinzione che lo studio sulle diseguaglianze e le loro cause ci permette di capire che esse non sono il risultato di forze ineludibili ma sono frutto delle scelte di politica economica. Ecco perché non possiamo parlare di crescita economica senza occuparci delle diseguaglianze. L’economia capitalista convive con il rischio che il risparmio non si converta in investimento e questo risulta essere un freno alla crescita poiché molte forze produttive, come il lavoro, sono sottoutilizzate. Quello delle disuguaglianze è dunque un tema economico e non solamente etico.

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