È auspicabile la vittoria della giustizia

Solitamente l’idea di giustizia, in riferimento alle vicende africane, pare sospinta da una sorta di grezza rappresentazione manichea: o si è interamente vittime, o totalmente colpevoli. Chi ha sofferto le violenze della guerra civile sierraleonese, avrà dunque colto favorevolmente la notizia, del 26 aprile scorso (una notizia sfuggita alla grande opinione pubblica), riguardante Charles Taylor: l’ex presidente liberiano è stato giudicato colpevole di aver fornito aiuto materiale, assistenza e sostegno morale ai ribelli del Fronte unito rivoluzionario (Ruf), attivi nella Sierra Leone negli anni Novanta, sotto la guida del defunto Foday Sankoh. Come era prevedibile, la sentenza della Corte speciale per la Sierra Leone (Scsl) ha suscitato il plauso della comunità internazionale. Ma la strada del riscatto è ancora molto lunga, e tutta in salita: tra mercenari stranieri e venditori di pepite, sono ancora molti i criminali a piede libero che hanno indicibili responsabilità nelle sanguinose vicende dell’ex protettorato britannico.

E cosa dire del mandato di arresto nei confronti del presidente sudanese Omar Hassan El Bashir, spiccato dalla Corte penale internazionale (Cpi) nel 2009 per misfatti d’ogni genere ordinati nel Darfur? È chiaro che l’intento dei giudici dell’Aja è stato riaffermare solennemente il primato della giustizia. Eppure, per quante possano essere le nefandezze commesse da Bashir, la decisione della Corte solleva non pochi quesiti, sui quali le cancellerie dovrebbero interrogarsi.

Anzitutto, tale provvedimento non ha facilitato il difficile cammino di ricerca di una soluzione negoziale dell’annoso e penosissimo conflitto darfuriano.

Va ricordato, poi, che sia l’Unione africana che la Lega araba si erano espresse apertamente contro l’adozione di un simile provvedimento, ritenendolo inopportuno e controproducente per una risoluzione delle ostilità. Vi è poi da riflettere sul valore effettivo di un mandato di cattura contro un presidente nel pieno esercizio della sua autorità, che gode oltretutto i favori di un membro permanente con diritto di veto (la Cina), del Consiglio di sicurezza dell’Onu.

D’altronde, è chiaro che il regime sudanese ha fatto orecchie da mercante alla richiesta della Corte internazionale, non solo perché l’arresto dovrebbe essere eseguito dallo stesso governo subordinato all’attuale capo di stato Bashir, ma anche perché Khartoum non hai mai accettato di ratificare lo statuto di Roma della Cpi.

Vi è peraltro un precedente che avrebbe dovuto indurre i giudici dell’Aja a tutt’altre considerazioni: quello di Joseph Kony, famigerato leader dei ribelli nordugandesi dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra). Sebbene non fosse un capo di stato, il rifiuto da parte della Cpi di accettare che Kony si arrendesse alla giustizia ugandese è alla base del fallimento delle trattative di pace tra Lra e governo ugandese, con la conseguente estensione del conflitto nella vicina Repubblica democratica del Congo e addirittura in quella Centrafricana.

Ecco perché sarebbe auspicabile che la diplomazia internazionale fosse messa nelle condizioni di fare il proprio corso, senza dover subire interferenze, in scenari così complessi, in cui è tragicamente urgente arrivare a una pace.

Non si equivochi, però. Se è ingenuo pretendere che provvedimenti giudiziari del Cpi possano, ipso facto, determinare un miglioramento della situazione dei diritti umani in un contesto infuocato come quello sudanese, un processo e un’eventuale condanna dei colpevoli di crimini così gravi sono un obiettivo che va salutato con favore e perseguito con determinazione.

Anche per il valore esemplare e il monito diretto a tutti i despoti.

In qualche caso eccezionale, una certa realpolitik potrebbe però essere anteposta alle regole universali del diritto.

Se, infatti, la diplomazia internazionale dovesse fallire in Darfur, come in qualsiasi altra regione “sensibile” del continente, dove è in gioco il destino di milioni d’innocenti, non sarebbe certo una vittoria della giustizia cui tutti aneliamo. Ma ciò non può significare gratuita impunità per chicchessia.

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