Il 25 marzo 1957 a Roma i rappresentanti dei Governi italiano, francese, tedesco, belga, olandese e lussemburghese, apponevano la loro firma sul Trattato Istitutivo della Cee. Aveva così avvio la politica economica comunitaria fondata sulle quattro libertà fondamentali del mercato unico: libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali. Così, da una convergenza economica, prese le mosse il cammino dell’integrazione europea. Sono passati 60 anni da quel giorno; sono stati anni di pace e di progresso non purtroppo privi di criticità e ombre. Negli ultimi decenni il «sogno» europeo ha visto incrinarsi la sua spinta propulsiva. A cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90 le istituzioni comunitarie incassavano da parte degli italiani grande credito e fiducia contro la disaffezione patita dai partiti e dagli organi del governo nazionale.Basti pensare come l’emergente Lega Nord tesseva allora le lodi dell’Europa virtuosa contrapposta a «Roma ladrona» (ironie del destino). L’inizio del nuovo millennio ha visto però indirizzare verso Bruxelles sempre più malessere e insofferenza; nella vulgata comune l’Europa è diventata il colpevole di ogni problema, per dirla con le parole del compianto Edmondo Berselli: «L’Unione europea ha la caratteristica infallibile di apparire un congegno perfetto quando c’è bonaccia e di tramutarsi in un campo di battaglia non appena il mare si increspa». Il progetto europeo è entrato in crisi proprio con l’affermarsi dirompente della globalizzazione: un fenomeno che avrebbe, al contrario, dovuto creare terreno fertile per l’integrazione transnazionale. In ragione di questo paradosso è nostro dovere riaffermare alcune convinzioni in vista del proseguo del sogno europeo: Bisogna ripartire i pesi della globalizzazione. Nei primi anni a pagare lo scotto delle competizione con l’estero e con i paesi emergenti sono state le fasce più basse della società occidentale, quelle che proprio in quegli anni hanno perso peso economico e di rappresentanza politica, trovando così inascoltate o sottovalutare le loro rimostranze. Il ceto medio è stato inizialmente risparmiato potendo così continuare a sostenere il lacunoso progetto delle elitè europee. Negli ultimi due lustri questa «fascia» di mezzo si è sempre più assottigliata vedendo intaccate certezze che credeva granitiche. A rischiare oggi non sono più solo i lavoratori de-specializzati ma anche coloro che possiedono qualifiche che un tempo assicuravano stabilità. Questo ha alimentato le file alle porte dei detrattori dell’Europa, mentre la classe dirigente liberale si è chiusa nei salotti, ancorata ad una narrazione condivisa da una minoranza. Le elite europee hanno purtroppo rimosso dal loro orizzonte queste difficoltà diventando poco credibili e degne di fiducia. Per togliere argomenti agli euroscettici occorre razionalizzare le istituzioni europee rendendole meno dispersive e più efficaci, legandole maggiormente alla rappresentanza popolare. Bisogna poi attuare una politica fiscale comune, che sia improntata alla redistribuzione delle risorse e alla pianificazione occupazionale per rigenerare occasioni a vantaggio di chi oggi vede nell’Europa solo una porta chiusa. Basandoci sui 18 Stati che condividono sia la volontà a mantenere la moneta unica che l’appartenenza comunitaria, dobbiamo rinforzare i legami politici e economici partendo dalla legislazione, individuando campi in cui vi sia una vera e propria riserva di legge esclusiva in capo al legislatore europeo: le materie di competenza nazionale devono pacificamente essere accettate come residuali. L’Europa ha davanti un grande compito se sarà capace di accettarlo. Le potenze emergenti, su tutte la Cina, stanno sì ritagliandosi un ruolo centrale sullo scacchiere internazionale ma rifiutano di assumersi le responsabilità conseguenti. Non esiste oggi una leadership mondiale che metta al centro il tema dell’equità, della solidarietà e della armonizzazione tra interessi individuali e collettivi. Qui deve crescere e farsi sentire lo spirito europeo. Le sue carte potrà giocarsele più nella difesa dei valori democratici che nella competizione economica. Mai come oggi a vacillare è il modello della democrazia liberale occidentale come sistema atto a garantire diritti e prosperità. Nel recente discorso al meeting di Davos, il leader Cinese Xi Jinping, non solo ha difeso la globalizzazione, ponendosi in antitesi alle spinte isolazioniste del neo presidente americano Trump, ma ha insinuato un dubbio: siamo sicuri che in tempi di crisi la democrazia liberale sia il modello di governo migliore? Si fa così largo l’idea che convenga di più un contratto sociale basato sull’efficientismo: scambiare benessere economico e sicurezza con una limitazione delle libertà civili e individuali. È il modello dell’uomo forte che sa usare il pugno di ferro; ecco spiegato come mai XI, Putin, Trump, sono tutte facce della stessa medaglia. Non dobbiamo cedere alla voglia di semplificare credendo che le nostre fragilità individuali non possano trovare soluzione in percorsi collegiali e partecipati. Questo vale sia per le vite di noi singoli che dei Paesi di cui facciamo parte. Ecco perché dobbiamo rinvigorire la carica pubblica più importante: quella di cittadini! Riprenderci la politica facendo sì che le istanze dei territori e della società civile facciano sistema e agiscano come «lobby» per scongiurare il rischio che i soli potentati economici siano gli unici a poter accedere alle stanze dei bottoni. Ma se davvero vogliamo essere credibili dobbiamo trattare con più orgoglio la storia di cui siamo figli. Gli anni della recente immigrazione ci hanno messo davanti a problematiche che prima ancora che pratiche (tante e difficili) chiamano in causa la nostra identità. Continuare ad attaccarsi a formulette vuote non serve a molto. Possiamo ripetere che la società del presente e del futuro sarà multiculturale ma con questo diremo ben poco: il multiculturalismo indica un’operazione, una somma ma non dice nulla su quello che potrà essere il risultato. La moda «politically correct» imperante da decenni ci proibisce di stabilire gerarchie di valori facendoci precipitare in un baratro di insicurezza e smarrimento. Non si integra per sottrazione, non ci si può incontrare nascondendosi. La Carta di Nizza dei diritti fondamentali dell’Unione europea dice chi siamo, quali sono le nostre radici e i valori che ci accomunano. Con il riferimento ad una parte dell’immigraIone di natura islamica, figlia di una tradizione in cui la religione permea ogni aspetto della della vita, non possiamo infine negare a noi stessi che certi atteggiamenti e certe spigolosità, non sono compatibili con la nostra visione del mondo e della società laica, imperniata sui diritti civili e sulla parità tra uomo e donna. Le differenze debbono dunque integrasi nel solco dei valori di rispetto e solidarietà della democrazia liberale di cui siamo espressione. Questa è la sfida cui siamo chiamati, perché come scritto recentemente da Emma Bonino: «Nessun Paese europeo – né quello più grande né quello con il più ricco patrimonio culturale – può pretendere di vincere da solo le grandi sfide della diplomazia culturale. Per costruire un fronte unico a difesa dei valori di libertà, diversità e pluralità, occorre un’azione di ampio respiro che solo un soggetto realmente globale, come gli Stati Uniti d’Europa, potrà efficacemente assicurare.»
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