È tempo di fiere. Di fiere dell’arte. Rappresentano il successo della dimensione commerciale. Quella che si oppone, a livello di massima visibilità, alla dimensione culturale. Un business ridisegnato dai comunicatori e diffuso dai media come “investimento alternativo”.Una cosa è certa: la dimensione economica ha infranto (più esatto dire cancellato), l’ immaginata “sacralità” dell’arte. Che comunque non è mai stata estranea alla “materialità” del denaro.Arte e cultura oggi esistono in quanto hanno un impatto economico. Non per questo hanno perduto il loro incantesimo. “Di conseguenza – come dice Philippe Daverio – il commercio che ne deriva è doppiamente magico: aggiunge alla magia dell’arte la magia della transazione commerciale quando questa raggiunge cifre fuori dal comune”. Un paradosso ? Non solo. Prendiamo “Artefiera” di Bologna, aperta in questi giorni, dove c’è un po’ di tutto, dal passato al passatempo, dal moderno al minimalismo concettuale, dove si parla di tutto tranne che di arte. Dove – a parte che in certe iniziative collaterali – il fiume delle parole è costituito da transazioni, beni rifugio, quotazioni, rendimenti, brand globali e via di questo passo. L’obiettivo esplicito sono gli scambi, quello non troppo nascosto è stato affidato alle pagine del Corriere (ben trenta!) e invoca interventi da “infiammare lo sviluppo e il commercio delle arti nel nostro Paese”. Il sistema dell’arte contemporanea sembra ormai inimmaginabile senza la rete delle Fiere dell’arte. Con l’espansione delle Fiere-evento, dietro alle quali si muovono i grandi capitali finanziari e delle grandi organizzazione di vendita, l’interesse per tutte le altre forme di promozione e autopromozione artistica, è destinato a cedere il passo. Una trasformazione attribuita alla espansione sistemica – in cui si cimentano con la finanza un po’ tutti: media, aste, musei, tipologie di critici, editoria specializzata, pubblicità, le grandi gallerie e le corporate art collections e la lunga filiera dell’indotto, specializzato e non - e che si riconosce nell’affermazione che l’arte è prima di tutto un prodotto da vendere. Indipendentemente dal valore estetico. L’autentica passione dominante in fiere è per la “merce” artistica venduta o posseduta. Un fenomeno strutturale, sociale e culturale che largamente sfugge agli occhi esterni. Come sfugge un altro fenomeno. Queste nuove forme organizzative che sono le fiere stanno prendendo il sopravvento su ogni altra forma in grado di influire sulla “visibilità” e sulla “reputazione” di un artista e della sua arte. Rappresentano il trionfo esplicito della dimensione commerciale dell’arte Tanto che le troviamo accuratamente calendarizzate: Bologna (Arte Fiera), Milano (MiArt), Torino (Artissima), Padova, Parma, Cremona (Arte Cremona), Belluno (Arte in Fiera), Roma (Art Roma), Firenze, Forlì, Ferrara, Genova, Napoli, Ravenna, Palermo…, ma anche all’estero: Basilea (Kunstmesse) Berlino, Vienna, Madrid, Parigi (FIAC), New York (Armory Show), Colonia (Kunssthalle), Dubai, Brussels, Barcellona, Melbourne, Shanghai, Pechino…In una certa ottica è il segno della grossa crescita del mercato. Con conseguenze positive per un verso, ma anche da approfondire per un altro. Il primo risultato di queste organizzazioni è di avere spazzato via in poco tempo ogni forma di occultamento dell’arte come merce. Un tempo l’arte era costituita dall’artista e da quello che faceva. Oggi l’arte è ciò che si commercializza, indipendentemente dal valore estetico. Questo processo ha acconsentito il superamento dei generi e messo in imbarazzo chiunque oggi vuole offrire comparazione ed esempi.In fiera non c’è selezione. Le fiere dell’arte, non propongono un panorama qualitativo dei migliori o delle più interessanti ricerche. Espongono ciò che i mercanti, secondo strategie di marketing e logiche di business, hanno scelto di sostenere. Magari un fondo di magazzino, magari un autore sostenuto dalla banca amica. Le fiere non si rivolgono a un pubblico desideroso di conoscere o ad artisti ansiosi di emergere, ma al gallerista che ha artisti affermati o emergenti da proporre e a collezionisti o investitori che in momenti di crisi cercano alternative per impegnare i propri soldi. Alle fiere il visitatore trova abitualmente quadri, sculture e oggetti d’arte esposti come una qualsiasi altra mercanzia fieristica, in un contesto generalmente abbastanza caotico. Se sprovveduto si trova spesso a vagare per stand e labirinti, bersagliato da messaggi e “offerte”. Sociologicamente è rilevante comunque l’enorme circolazione di pubblico a queste fiere. Gli organizzatori parlano di fruizione “attendibile”: Difficile tuttavia credere che una tale informazione “visiva” possa conciliare una forma di consumo culturale.Per venditori, collezionisti e investitori le fiere sono eventi mondani da non perdere, al pari se vogliamo delle biennali, impegnati a modo loro a definire quotazioni e trend o a evitare la caduta della domanda di qualche loro artista. E il pubblico? Pare accontentarsi di qualche sfuggevole occhiata e curiosità soddisfatta. Ma a eccitarlo non è l’arte è, piuttosto il clima euforico di vitalità speculativa che vi regna. Insomma, è’ la nuova aura, l’aura dei mercanti d’aura. Alchimisti della “valorizzazione”.
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