«Uno dei problemi della scuola è che l’entusiasmo di molti insegnanti si è spento da tempo». Sacrosanta verità. E’ un passaggio estrapolato dall’intervento che la ministra Giannini, rivolgendosi ai giovani, ha tenuto di recente a Lucca nell’ambito del “Quarto festival del volontariato”. A questo punto qualche domanda bisogna pur porsela. Perché molti insegnanti hanno perso l’entusiasmo? Quali le cause che hanno determinato questo grave rilassamento didattico-educativo? E qui le risposte potrebbero essere tante, ma mi limito a sottolinearne qualcuna. Proviamo ad esaminare il problema, seguendo alcune risposte e cerchiamo di capire cosa sia effettivamente successo alla classe docente. Che gli insegnanti, già da un bel po’ di tempo, abbiano perso entusiasmo è fuori di dubbio. Lo hanno capito anche i sassi. Con la sua dichiarazione la ministra Giannini non ha fatto altro che mettere il dito sulla piaga. Ciò che, invece, credo sia discutibile è ritrovare la ragione di questo pericoloso stato emotivo, nei «lauti» stipendi su cui da anni confidano i docenti. Sicuramente è una delle ragioni, ma a mio modesto parere a questa vanno affiancate tante altre, che hanno molto poco di economico e tanto di umano tra le quali la perdita di credibilità relazionale, di prestigio sociale, di effettiva capacità educativa. E queste da sole valgono ogni miglioramento stipendiale. Certo è fin troppo ragionevole pensare che un docente di prima nomina con l’attuale stipendio si colloca nella fascia sociale economica medio-bassa fino a toccare con mano il rischio di ricorrere all’aiuto dei genitori per far fronte alle innumerevoli situazioni personali o famigliari. Ma ciò che più tocca la dignità di un docente è scoprire di non essere più in grado di interpretare le abitudini sociali e civili dei ragazzi, di aver perso, presso i genitori, il riconoscimento del diritto di guidare un figlio, di accompagnarlo, come guida, lungo la strada tortuosa della vita. Tutto questo, da un po’ di tempo a questa parte, oggi è stato messo in discussione. E questo vale forse più del riconoscimento di un aumento di stipendio. A cosa serve, infatti, avere un manciata di euro in più se poi un docente non riesce a farsi capire, non è considerato affidabile, perde di credibilità agli occhi dei suoi allievi, dei genitori, dei colleghi. Perdendo di credibilità l’insegnante, perdono di credibilità i valori di cui è egli portatore, rovinando le aspettative di chi su questo processo ha puntato da subito e tra questi vanno annoverati prima di tutto gli studenti. E così si crea un certo distacco dagli altri e da se stessi. Il docente sente questo ruolo distante, non si sente coinvolto, non fa suo il cammino di ciascun allievo, sente di essere un insegnante, eppure non riesce a fare l’insegnante. Teniamo presente che tra “essere insegnante” e “fare l’insegnante” c’è una grande differenza. La routine detta e scandisce i momenti della giornata in classe. Preso da questo ritmo fatto di sole abitudini, il docente improvvisa il mestiere senza creare un clima di partecipazione, trasmette sì dei contenuti, ma non passione per una riflessione, per una personale rielaborazione. In questo contesto trova spazio il processo educativo dell’esempio. Ecco allora che ogni atteggiamento si identifica in un faticoso rapporto con gli altri e con se stesso. Diventa faticoso, ad esempio, non usare il telefonino in classe davanti agli allievi o arrivare puntuale alla lezione, diventa faticoso vivere l’impegno didattico, essere puntuali nella consegna dei compiti, ricordare le regole del buon vivere. L’atto educativo diventa un fatto burocratico, viene vissuto quasi a livello impiegatizio ragion per cui tutti i ragazzi sono uguali tra loro, dimenticando che uno è diverso dall’altro, che ognuno ha una sua storia personale, che le esigenze di uno non sono le esigenze di un altro, che ognuno ha una sua potenzialità. Prestare attenzione a tutto questo diventa una fatica immane anche se oggettivamente è un lavoro difficile, ma che a un insegnate scemato di entusiasmo diventa francamente inutile. Come si vede siamo ben lontani da un insegnante motivato, che crede nel proprio impegno, consapevole del proprio ruolo, dell’importanza che riveste la sua opera a contatto coi i ragazzi. Siamo lontani da un insegnante che sa leggere la reale situazione dell’alunno, dei suoi pregi e difetti, dei suoi limiti, che sa trasmettere un’emozione, che si fa capire e si fa amare poiché in grado di trasmettere le ragioni di giustizia, di rispetto, di equilibrio, finalizzate al sommo bene. Ricordiamoci che l’insegnante non è solo un dispensatore di contenuti e conoscenze, ma anche un modello di umanità e questo indipendentemente dallo stipendio che pure ha la sua ragion d’essere. Come Esaù perse la primogenitura per una scodella di lenticchie (Bibbia, libro della Genesi), così l’insegnante rischia di perdere il suo essere docente per un pugno di euro in più. Un insegnante privo di entusiasmo per il suo impegno, ha tirato i remi in barca e non riesce più ad essere presente, trascinandosi stancamente al suono dell’ultima campanella della giornata. Un figura così perde di potenza educativa, anzi diventa dannosa per la classe e per la collettività. Quella collettività che non lo ama più, che lo considera un’appendice sociale inserita in un sistema tutto proteso altrove dove la macchina relazionale trasmette altri valori e altre virtù. Un siffatto docente non cresce più. Ho colto da Romano Guardini, teologo, filosofo e per me anche pedagogista, la miglior immagine (secondo il mio punto di vista) sulla forza dell’educazione. A tal proposito, infatti, cosi scrive: «La più potente forza di educazione consiste nel fatto che io stesso - cioè, io educatore - in prima persona mi protendo in avanti e mi affatico a crescere». Allora va bene parlare di adeguamento dello stipendio come elemento di riconoscimento di giustizia economica e retributiva, ma l’entusiasmo, la motivazione, la stima di un insegnante si rafforzano “buttandosi” verso qualcuno, sapendo che questo comporterà impegno, fatica, ma anche crescita personale. E’ l’unica strada da percorrere per essere credibili agli occhi di tutti.
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