Sul “Corriere della Sera” di venerdì 6 febbraio è stato pubblicato un accorato articolo sulla “eterologa senza donatrici” nel nostro Paese, a dieci mesi dalla sentenza della Corte Costituzionale. Simona Ravizza, che firma l’articolo, denuncia il rischio che arrivino “le cliniche estere, pronte ad allargare il business in Italia”. E fin qui un segnale interessante, perché chi, come me, è contrario alla fecondazione eterologa, ha sempre denunciato il rischio che si potesse fare i soldi sulla pelle delle donne, con l’eterologa, innescando un vero e proprio “commercio della vita e della maternità”. Ma il tono dell’articolo è diverso, allarmato: “il problema è l’assenza di donatrici. Un ostacolo che le nostre istituzioni non hanno risolto. Questioni etiche. Per trovare donne disposte a donare i propri ovuli (sottoponendosi a pesanti trattamenti ormonali e a un intervento chirurgico per il prelievo) bisognerebbe riconoscere un premio di solidarietà. Un rimborso in denaro che copra almeno le giornate perse. Ma la soluzione è contestata da chi teme di creare, in questo modo, lo sfruttamento delle donne in difficoltà economiche”. Qui la grammatica diventa infida, e in poche righe si scrivono molte verità, che però hanno nessi logici “controversi”, che rendono politicamente corretta un’analisi che poteva essere ben diversa. Le parole coprono concetti contraddittori: si cercano donne “disposte a donare i propri ovuli”, e si ipotizza un “premio di solidarietà… un rimborso in denaro”. Ma il codice del dono mal si concilia con il rimborso, e la donazione di sangue nel nostro Paese - pratica medica solidaristica esemplare - mai ha visto un corrispettivo, nemmeno sotto la falsa specie di “rimborso”. Il dono è dono, la solidarietà non ha “premi” in denaro. Pensiamoci bene: solo poveri o studenti vendono sangue in cambio di soldi, nei Paesi in cui è sciaguratamente legale farlo - e qui l’Italia ha un primato di civiltà: la donazione di parti del proprio corpo è possibile solo a titolo totalmente gratuito: dono, appunto. L’articolo invece cita la Spagna, dove le donazioni sono “fatte soprattutto da studentesse, per pagarsi l’università. È un atto di solidarietà. Ma è permesso un compenso economico”. Quasi non si riesce a percepire la oggettiva contraddittorietà dei due termini: “una solidarietà con compenso”. Meglio delle famose “convergenze parallele!”.In effetti uno dei nodi centrali per chi si oppone all’eterologa (oltre alla grande questione dei diritti del bambino così concepito), cioè il grave costo in termini di salute per le donne “donatrici”, è scritto tra parentesi, come se fosse una questione irrilevante. È tutto vero, però, e per niente marginale o incidentale: le donne che donano ovociti per l’eterologa sono sottoposte a “pesanti trattamenti ormonali” e a “un intervento chirurgico per il prelievo”. Altro che “tra parentesi!”. Interventi medici così invasivi e rischiosi per la salute si possono accettare per solidarietà, come tanti donatori di midollo spinale o di reni testimoniano coraggiosamente. Ma non si può collegare questa generosità, che non ha prezzo, alla presenza di un rimborso. E soprattutto, perché allora negare che il mercato degli ovociti inevitabilmente richiesto dalle tecniche eterologhe è un grave fattore di rischio per la salute delle donne “costrette” o “desiderose” di vendere/donare i propri ovociti? Davvero siamo disposti a scambiare il diritto alla salute delle donne a favore del progetto di genitorialità di alcuni? Dice bene, Simona Ravizza: “questioni etiche”, quasi come fastidiosa obiezione alla fluidità della legge, “un ostacolo che le nostre istituzioni non hanno risolto”. In effetti è proprio così: le questioni etiche sono una vera e propria pietra d’inciampo, di fronte ad una tecnologia pronta a soddisfare i bisogni di alcuni con la salute di altri. Senza il dono, questo è inaccettabile!
© RIPRODUZIONE RISERVATA