I cattolici le pagano le tasse?

Pare che i cittadini dell’Urbe avessero sempre un buon motivo per non pagare le tasse: una volta perché comandava il papa, una volta perché comandavano i carcerieri del papa... Ma l’abitudine era ed è ben più estesa; in tutta Italia è talmente radicata che la si considera parte del paesaggio.E c’è sempre una scusante, perché sempre c’è un potere prevaricatore che spreme il limone del popolo.Il quale, giocoforza, si difende ingannando il potere. Non è dunque invenzione di Berlusconi la dottrina per cui, oltre una certa soglia di prelievo, il sottrarsi ai doveri fiscali sarebbe legittima difesa.Ora però – effetto della crisi – ci si accorge che tale mentalità solidificata (Giovanni Paolo II l’avrebbe forse chiamata “struttura di peccato”) ostacola irreparabilmente gli sforzi necessari ad attenuare gli effetti del dissesto economico, determinato dalle avventure del capitale finanziario. È accaduto quando, con le manovre di agosto, il governo, sia pure col cuore sanguinante, ha ritenuto di dover “mettere le mani nella tasche degli italiani”, contravvenendo al proprio totem liberista. E così, anche il governo Monti, per far quadrare i conti di un risanamento problematico, ha pensato di computare tra le entrate dello stato i proventi del “contrasto all’evasione fiscale”. Ma i referenti della manovra (la Bce e soprattutto i mercati) non hanno preso per buona la trovata, adducendo che il prodotto del recupero dell’evasione non è quantificabile in via preventiva.Ragione tecnica ineccepibile. Che si aggiunge alla consapevolezza del conclamato costume italiano di renitenza ai richiami civici. Come si fa a credere alla lotta all’evasione, quando è noto che ne sappiamo una più del diavolo, se si tratta di venir meno ai “doveri di solidarietà”, pure scritti nella Costituzione?Come finirà l’operazione contabile in cui tutto il paese è immerso, è difficile da prevedere. Ma il tema dell’evasione resta, anzitutto, un problema di cultura che riguarda, in ultima analisi, il modo con cui ognuno di noi considera gli altri e il prossimo, prendendone in carico le esigenze.Il particolarismo italico, di cui ragionò Guicciardini, è organicamente refrattario al bene comune, se non come residuo dell’appagamento individuale.Dunque ogni tentativo va compiuto, perché tutti paghino le tasse. Soprattutto, si dovrebbero attivare tutti i centri in grado di concorrere a una grandiosa opera di pedagogia sociale. In proposito, una volta Romano Prodi lamentò l’assenza di prediche sull’argomento. Non va chiesto ai parroci di chiamare i fedeli a offrire l’oro alla Patria, come dovettero fare nel 1936, ai tempi della guerra d’Abissinia. Basterebbe che si applicassero a illustrare la connessione tra l’essere cristiani e l’onorare il fisco come dovere di coscienza.Può essere d’aiuto Pagare le tasse. Solidarietà e condivisione, di Giovanni Cereti (Cittadella Editrice). Il libretto colma una lacuna perché, come si legge nel Dizionario della dottrina sociale della Chiesa, “il magistero (…) non si è mai pronunciato in modo sistematico sulle questioni tributarie”. Eppure non mancano, a partire dal settimo comandamento, richiami convincenti sull’obbligo di praticare la solidarietà sociale, dai passi evangelici alle lettere di Paolo fino al Concilio. Con l’intervallo di passate distinzioni che hanno, di fatto, attenuato la percezione dell’obbligo, insita in una visione solidale della convivenza civile. Ma oggi, come ha detto il cardinal Bagnasco, questo “cancro sociale” “soffoca l’economia e prosciuga l’affidabilità civile delle classi più abbienti”. Dunque: leggere, meditare e… predicare.

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