È il momento di Panama. Il piccolo e giovane Paese del Centro-america, nato poco più di un secolo fa (nel 1903 gli Stati Uniti ne propiziarono la secessione dalla Colombia per costruirvi il Canale tra i due Oceani) è balzato agli onori delle cronache, in positivo, per due recenti notizie: la scelta di papa Francesco di celebrare proprio a Panama la Giornata mondiale della gioventù del 2019 e, qualche settimana prima, l’inaugurazione ufficiale del raddoppio del famoso Canale, costruito nel 1914.
Entrambi gli eventi rappresentano, in chiave naturalmente molto diversa, due grandi opportunità per un Paese noto per essere stato a lungo una sorta di protettorato statunitense e un paradiso fiscale (pensiamo alla recente diffusione della lista Panama Papers).
Un’opportunità per essere fedele alla sua naturale vocazione, quella di essere al centro del Continente americano, via obbligata di passaggio tra Nord e Sud e tra Est e Ovest.
Se la “corsa” verso la Gmg inizia ora, il destino del Paese resta legato in modo inestricabile al futuro del Canale. Per questo l’inaugurazione del raddoppio della mega via d’acqua, lunga poco più di ottanta chilometri, è stata un evento. Dallo scorso 26 giugno sono state aperte una nuova linea di traffico e nuove chiuse. Inoltre il Canale, in alcuni punti, è più largo e profondo, rispetto a prima, divenendo così attrezzato per l’attraversamento delle enormi navi container che erano state chiamate Post-Panamax, per il fatto che, fino ad ora, non erano in grado di attraversare il Canale. D’ora in poi l’istmo sarà attraversabile da navi con 366 metri di lunghezza, 49 metri di larghezza e 15 di pescaggio.
Il raddoppio del Canale, con un progetto nazionale e non statunitense, nel 2007 era stato sottoposto alla volontà popolare.
E 3 panamensi su 4 avevano detto di sì.
Ma non è scontato che la nuova “gallina dalle uova d’oro” sia occasione di progresso per tutto il Paese. È proprio questa la preoccupazione della Chiesa e, in particolare, della Conferenza episcopale, che così si è espressa in una nota firmata dal suo presidente, monsignor José Domingo Ulloa Mendieta: “L’inaugurazione del Canale ampliato è stato per noi un grande avvenimento che ci ha riempito di gioia e patriottismo, per quello che ha significato quest’opera nella storia dei panamensi. Ora abbiamo di fronte a noi una grande sfida, quella di passare sopra alle differenze e alle rivalità, per conquistare sovranità, democrazia e giustizia sociale”. Secondo mons. Ulloa si deve costruire un Paese senza esclusioni, “chiudendo lo scandaloso fossato tra i pochi che hanno molto e i molti che hanno poco”.
Prosegue il testo: “Abbiamo una occasione storica davanti: avere un canale per tutti, per contadini, indigeni, afro-discendenti, donne, bambini, giovani, anziani e persone con esigenze particolari, insomma, per tutti”.
Intanto non è finita qui, dato che esistono progetti per la costruzione, entro il 2025, di una terza serie di chiuse, con l’obiettivo di ricavare, ogni anno, 6,2 miliardi di dollari.
Manie di grandezza? Non proprio, anche se non tutti sono d’accordo sulle ottimistiche stime sull’espansione del trasporto via nave.
“Certamente il Canale andava ampliato per rispondere alle nuove esigenze, altrimenti rischiava di diventare inutile. Ma la battaglia che si combatte sullo sfondo è tutta geopolitica”, dichiara l’economista Cesár Ferrari, peruviano, docente all’Università Javeriana di Bogotá, con un passato al Fondo monetario internazionale. Il tutto va inquadrato nell’aumento del commercio tra tutto il Continente americano e la Cina, il vero nuovo “attore” presente in America Latina. Usa e Cina commerciano (le navi che attraversano il Canale fanno la spola soprattutto tra questi due Paesi), ma al tempo stesso battagliano tra loro. E l’America Latina (soprattutto l’America Centrale) è precisamente il campo di questa battaglia combattuta dai gringos contro gli emergenti chinos. Panama doveva adeguarsi. O sarebbe stata scavalcata da altre opere, tutte di marca cinese. A partire dal faraonico progetto di scavare un altro canale, più a nord, in Nicaragua (dove comanda l’ex leader sandinista Ortega, vicino a Pechino).
Il Canale, molto più lungo di quello di Panama (quasi 300 chilometri), passerebbe per l’ampio lago di Nicaragua, provocando secondo molti una catastrofe ambientale (la Chiesa locale si è nettamente opposta al progetto).
Nel giugno 2013 il parlamento di Managua ha approvato un disegno di legge che attribuisce una concessione cinquantennale per la costruzione dell’opera alla Hong Kong Nicaragua Canal Development Investment Company (HKND). “Se lo faranno ci vorranno vent’anni – dice Ferrari -. Ma questo non toglie che la Cina sarà la grande protagonista dell’economia latino-americana da qui a dieci anni.
Già ora è o il primo o il secondo partner commerciale di tutti i Paesi latino-americani. Ai cinesi interessano le materie prime dell’America Latina e sono pronti a fare grandi investimenti, non c’è solo il progetto del Canale in Nicaragua, ma anche quello relativo alla costruzione di una ferrovia dal Brasile al Perù, per convogliare le materie prime verso il Pacifico”.
Non solo: esiste un altro progetto ferroviario, sempre cinese: la costruzione di una ferrovia di 200 chilometri poco a sud di Panama, in Colombia tra il Mar dei Caraibi e il Pacifico.
La situazione che contiene naturalmente un rischio, “quello di un nuovo colonialismo”. Stavolta con gli occhi a mandorla. “È l’eterno problema dei problemi latinoamericani – conclude Ferrari -, del resto uno sviluppo indipendente non è facile, occorrono grandi capitali”.
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