Nel maggio scorso, a Lodi, carcerazione e carcere sono stati protagonisti del discorso pubblico, con eco perduranti. Eppure ogni giorno, in Italia, sono tratte in arresto alcune centinaia di donne e uomini (73.958 nel 2014, per opera della sola Arma dei Carabinieri) e ogni giorno sono migliaia le segnalazioni relative a persone denunciate e successivamente arrestate o fermate dalle forze di polizia (980.854 nel 2014; fonte: Istat). Alle persone tratte in arresto è applicata, di norma, la misura della custodia cautelare (che dovrebbe rappresentare, invece, una procedura d’eccezione), custodia che si protrae ben oltre undici giorni; non poche delle persone detenute saranno poi riconosciute innocenti (nel 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento per ingiusta detenzione e liquidati 35,2 milioni di euro; fonte: Ministero della Giustizia). Gli uomini detenuti, in particolare, conoscono l’internamento in una istituzione totale: un luogo di disperazione, di povertà materiale, di malattia fisica e psichica. E, ora, nuovamente sovraffollato: al 30 giugno 2016 il numero dei ristretti è salito a 54.072, a fronte di una capienza regolamentare di 49.701 posti (fonte: Antigone). Un numero certo lontano dalle 69.155 unità con le quali il 30 novembre 2010 l’Italia raggiunse il massimo storico della popolazione carceraria, ma in allarmante controtendenza rispetto al passato recente. Che dire infine delle familiari (madri, sorelle, spose, compagne, figlie) dei ristretti? Affrontano pazienti il dolore e la corvée della richiesta di permesso, della consegna di pacchi e denaro, della perquisizione corporale, dell’attesa in sale dagli orologi rotti. Lavorano per mantenere sé stesse, i figli, il proprio uomo recluso (se non è ricco di famiglia).
Tutto questo, di norma, in un silenzio indifferente, se non peggio: «Se la sono cercata, se la godano» è l’espressione del sentire comune. Quasi che il carcere sia un mondo a parte che inghiottisce un’umanità minore, degradata e violenta, indegna. E quasi che l’appartenenza a un ambito sociale e culturale rispettabile (e privilegiato) metta al riparo dalla possibilità stessa della detenzione. Allora, soltanto allora, il carcere diviene protagonista del discorso pubblico, che si esprime con accenti di sdegno e stupore (e di solidarietà) impensabili per “detenuti comuni”.
Perché la legge non è uguale per tutti, nelle intenzioni forse, nei fatti no. Una condizione economicamente agiata consente la difesa da parte di un legale esperto (o di un collegio di legali), dunque maggiori possibilità di far valere le proprie ragioni, di ottenere misure alternative o rimessione in libertà, se non dilazione del procedimento giudiziario o prescrizione del reato. Esiti differenti, molto differenti, che cambiano vite e destini.
È vero: di norma, in carcere finiscono gli ultimi, i perdenti, ma possono finire anche i primi. E non è detto che questi siano meno colpevoli, per quanto autori – se riconosciuti autori – di reati non ascrivibili alle categorie contro la persona o il patrimonio.
Platone, filosofo greco annoverato tra i padri del pensiero occidentale, sostiene – nelle Leggi - che l’ingiustizia e il male sono il risultato del predominio nell’anima di rabbia e paura, nonché del desiderio di piaceri. Di queste emozioni, le prime conducono ai reati d’impeto, agiti da parte di coloro che non hanno adeguati strumenti di discernimento del bene e di controllo dei propri stati d’animo: gli ignoranti, quelli che non sanno, che vagano brancolando nelle tenebre e commettono i crimini in risposta alle avversità della propria esistenza, in una spirale di distruzione e autodistruzione (è la tesi espressa dal filosofo Baruch Spinoza nell’Etica). Dalle tenebre, tuttavia, è possibile affrancarsi grazie alla conoscenza, che, con la guida della ragione, conduce alla saggezza e alla verità. Certo, come afferma Dante nel Convivio, occorre che gli esseri umani abbiano la possibilità di accedere al sapere, che non siano gravati da uno stato di necessità materiale che li pieghi ad altro. I sapienti e i saggi, e tra questi coloro che reggono le sorti dello stato, i governanti, hanno conoscenza, discernimento e controllo – sostiene Platone nella Repubblica -; posseggono strumenti per comprendere e interpretare la realtà e dunque hanno responsabilità maggiori nel consesso umano; non possono agire contro la legge e, se lo fanno, decadono dalla propria condizione di saggi atti al governo.
Riflettere sulla filosofia della pena non significa negare imparzialità e distanza nel giudizio, perché il giudizio – pur rifuggendo dalla soggettività del magistrato e pur ascrivendo ciascun reato entro una categoria data - non può ignorare la soggettività di chi commette un delitto e le circostanze in cui questo è agito. È una valutazione morale? No, è un principio etico. È un concetto che non pertiene alla giurisprudenza? No, perché l’idea stessa di crimine varia nel tempo e nello spazio, più o meno coerentemente con le trasformazioni sociali e culturali. Valga per tutti l’esempio della schiavitù, il più grande crimine della storia umana, per millenni legittimato e non riconosciuto come tale.
Esistono dunque crimini dei deboli (talvolta dettati dal bisogno, il “padre di delitti” che – scrive Giuseppe Parini in una celebre ode – facilmente persuade a violare i diritti altrui) e crimini dei potenti, i quali, nonostante la loro condizione di privilegio, le ricchezze di cui dispongono, il tessuto di relazioni di cui godono, violano la legge, o meglio, la rideterminano («la giustizia è la legge con la quale i forti impongono il loro vantaggio», afferma Trasimaco nella Repubblica di Platone), in ragione del principio economico di utilità (è “bene” o “giusto” ciò che aumenta il benessere dei cittadini). «Le ineguaglianze sociali determinano gradi diversi di libertà – scrive Vincenzo Ruggiero - Maggiore il grado di libertà goduto, maggiore, perché più ampia, la gamma delle scelte disponibili, insieme al repertorio di decisioni potenziali e alla possibilità di prevederne realisticamente gli effetti» (in Perché i potenti delinquono). Chi è più potente possiede certamente maggiori conoscenze e libertà e, soprattutto, «maggiore possibilità di attribuire le definizioni di criminalità agli altri e di respingere quelle che gli altri gli attribuiscono. Ha anche maggiori possibilità di controllare gli esiti della propria condotta criminale, generalmente non facendola apparire come tale» (in Crimini dei deboli e dei potenti).
Le leggi dell’economia, che la società neoliberista ha assunto a criterio universale, riconducono al punto di partenza: che un debole, un disperato, che non produce nulla, sia inghiottito dal carcere importa poco; che un potente, un governante, che produce valore, vi transiti per qualche giorno, scatena il dibattito pubblico. Il principio di disuguaglianza è dato.
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