Immigrati, cosa fa l’Europa?

di Gianni Borsa

Come sempre accade, l’improvviso “esplodere” di emergenze politiche, economiche, sociali, contribuisce a porre in primo piano problemi latenti, rimasti sotto traccia per lungo tempo, talvolta sottovalutati oppure semplicemente rimandati sine die. Così i tumulti popolari e i cambiamenti che stanno investendo il nord Africa o il riacutizzarsi degli “sbarchi ” di immigrati sulle coste italiane, rimettono al centro dell’attenzione le carenze, se non le assenze, di una vera politica euromediterranea che, colpevolmente, gli Stati rivieraschi di ogni bandiera hanno prima enfatizzato e poi semplicemente dimenticato.

Certamente un rapporto rafforzato tra gli Stati Ue, quelli balcanici, mediorientali e del Maghreb, non sarebbe la panacea a tutti i contrasti della regione, che comprendono – a secondo dei casi – la latitanza della democrazia, la negazione dei diritti umani, l’arretratezza economica e sociale, le spinte demografiche e migratorie, le tensioni politiche, etniche e persino religiose, le minacce ambientali con ricadute dirette sulla qualità della vita (salute, acqua, energia, inquinamento del mare...). In particolare sono la sponda sud del Mediterraneo e quella orientale (la Terra Santa) a porre in risalto questi nodi, variamente incrociati tra loro, in grado anche di alimentarsi reciprocamente. La lezione che emerge da Egitto, Tunisia e Algeria sottolinea, ad esempio, una compresenza di sistemi istituzionali lontani dagli standard democratici, ritardi sul versante dello sviluppo, povertà diffusa, difficile convivenza tra le diversità religiose: un pericoloso mix che può portare – è ciò che sta accadendo al Cairo, ad Algeri e a Tunisi – a rivolte di piazza, instabilità, pericolo di scivolamenti verso regimi autoritari.

Benché la politica euromediterranea non si possa considerare una ricetta miracolosa, essa è però sempre parsa – a cominciare dal suo esordio, con il cosiddetto Processo di Barcellona, nel 1995 – come la strada giusta per condividere questioni che toccano sia gli Stati nordafricani, sia quelli mediorientali sia quelli europei. In tal senso era stata presentata e battezzata la nuova linea Euromed sotto la presidenza semestrale francese dell’Unione nell’estate 2008. Il presidente francese Nicolas Sarkozy aveva allora convinto i 27 che il Mediterraneo era un’area di prioritario interesse per tutta l’Unione e non solo per i suoi Paesi più meridionali. Il 13 e 14 luglio dello stesso anno 43 capi di Stato e di governo avevano dato vita alla “Unione per il Mediterraneo” allo scopo di “rilanciare gli sforzi per trasformare il Mediterraneo in uno spazio di pace, di democrazia, di cooperazione e di prosperità”. Nasceva una organizzazione internazionale nuova, transcontinentale, con tanto di priorità politiche, di istituzioni e “progetti concreti di dimensione regionale creatori di una solidarietà di fatto”, il tutto sotto una presidenza turnante, affidata allora, paradossalmente, oltre che a Sarkozy a Mohamed Hosni Mubarak, presidente egiziano oggi in fuga.

Da allora, e sono trascorsi due anni e mezzo, l’Unione per il Mediterraneo è rimasta lettera morta, evocata solo da qualche voce sporadica proprio nel caso del palesarsi di emergenze come le rivolte popolari nel Maghreb o gli ingressi di immigrati in Grecia (dalla Turchia), a Malta e in Italia (attraverso Libia e Tunisia), in Spagna (da Marocco e Africa interna). L’inutile richiamo a una strategia Euromed si accompagna in queste ore anche ai tardivi appelli affinché l’Ue risolva i problemi delle pressioni migratorie verso le coste italiane. In realtà i governi europei hanno quasi sempre contrastato il fatto che l’Europa comunitaria si occupasse di migrazioni. Per due ragioni: anzitutto perché ciò appariva, soprattutto a talune forze politiche di stampo nazionalista o regionalista, come una ulteriore “cessione di sovranità” a Bruxelles; in secondo luogo per paura di essere coinvolti sul piano della solidarietà e della reciprocità, nei problemi “altrui”.

Sul versante delle migrazioni c’è poi lo “spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia” che dovrebbe essere perseguito dall’Ue mediante il “Programma di Stoccolma” – varato dal Consiglio europeo del dicembre 2009 –, concepito soprattutto per garantire la “sicurezza” ai cittadini del vecchio continente e il controllo delle frontiere esterne. “Occorre – stando al Programma di Stoccolma – che l’accesso all’Europa sia più efficiente per tutti coloro che devono accedere al territorio dell’Ue per un interesse legittimo. L’Unione e i suoi Stati membri devono nel contempo garantire la sicurezza dei propri cittadini. Le politiche sulla gestione integrata delle frontiere e in materia di visti dovrebbero essere concepite in funzione di questi obiettivi”. In un anno qualche passo è stato compiuto, nonostante l’emergere di nuovi freni e ostacoli frapposti dalle capitali. Ora la Commissione Barroso si dice d isponibile a intervenire sul fronte deglio sbarchi italiani, ma è necessario dotare l’Ue delle competenze, dei mezzi e delle risorse essenziali per farlo.

di Gianni Borsa

© RIPRODUZIONE RISERVATA