Uno studio della Banca Asiatica per lo Sviluppo e dell’istituto Liu per le questioni globali dell’Università della British Columbia, sottolinea una delle più stridenti contraddizioni del continente asiatico. Da una parte, il grande benessere economico – con un ritmo di crescita continentale pari al 7,6% annuo – di una piccola parte della popolazione e, dall’altra, la situazione di estrema povertà nella quale vivono 733 milioni di persone, che hanno un reddito pro-capite di 1,25 dollari al giorno. Molti di loro, stimati in 500 milioni, soffrono la fame. Le richieste di risorse alimentari di questa massa enorme di persone non possono essere soddisfatte, sostiene un rapporto della Banca Asiatica per lo Sviluppo, a causa della loro limitata disponibilità. Il ragionamento che sta alla base di questo rapporto è legato ai problemi inerenti alla produzione del cibo che risponda alle richieste dei consumi, sia attuali – in Asia vive oltre il 60% della popolazione del pianeta, che consuma poco più del 50% di tutto il cibo prodotto nel mondo - sia future: le previsioni vogliono che nel 2050 oltre la metà del Pil del mondo sarà prodotto nel continente e questo fatto genererà ancora più grandi richieste.Resta il fatto che in questo quadro bisogna pur considerare le denunce della FAO sullo spreco delle risorse alimentari. Se nel mondo si spreca – in base al recente Rapporto “L’impronta ecologica degli sprechi alimentari: l’impatto sulle risorse naturali” - 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, un terzo della quantità che si produce ogni anno, pari a 750 miliardi di dollari, i territori dove questo fenomeno è più consistente sono proprio quelli dell’Asia industrializzata e del Sud Est asiatico, che buttano rispettivamente circa il 28 e il 22% di cibo prodotto. Per la Fao, il 54% degli sprechi alimentari si verificano in fase di produzione, raccolto e immagazzinaggio; il 46% avviene nelle fasi di trasformazione, distribuzione e consumo. Nei paesi in via di sviluppo, le perdite di cibo avvengono maggiormente nella fase produttiva, mentre gli sprechi alimentari a livello di dettagliante o di consumatore tendono ad essere più elevati nelle regioni a medio e alto reddito, dove rappresentano il 31/39% del totale rispetto alle regioni a basso reddito (4/16%). Più avanti lungo la catena alimentare un prodotto va perduto sostiene il rapporto - maggiori sono le conseguenze ambientali, dal momento che i costi ambientali sostenuti durante la lavorazione, il trasporto, lo stoccaggio ed il consumo devono essere aggiunti ai costi di produzione iniziali. Ad esempio, lo spreco di cereali in Asia – sembra incredibile, ma è così - è un problema di notevoli dimensioni, che ha grandi ripercussioni sulle emissioni di carbonio, sulle risorse idriche e sull’uso del suolo. Sono tre, a parere della FAO, i livelli d’intervento per fronteggiare questa situazione. Dare priorità alla riduzione degli sprechi, limitando le cattive pratiche delle aziende agricole e esaminando meglio la quantità da produrre con la le richieste. Il riutilizzo, all’interno della catena umana, delle eccedenze produttive o, laddove questo non fosse possibile, la destinazione delle eccedenze all’allevamento del bestiame. Il riciclaggio dei sottoprodotti, la decomposizione anaerobica, l’elaborazione dei composti e l’incenerimento, con recupero di energia rispetto all’eliminazione nelle discariche. Sono queste le priorità d’intervento alle quali dovrebbero attenersi la maggior parte dei Paesi asiatici, che si avviano a gestire nei prossimi decenni una domanda di cibo sempre più crescente insieme – è prevedibile – ad uno spreco ancora più consistente dell’attuale, come avviene in tutte le società industrializzate.
© RIPRODUZIONE RISERVATA