Irregolari chiusi come in un carcere

Il carcere non è l’ultima istituzione totale del mondo civile, abbattuti i cancelli di lager e manicomi. È la penultima. L’ultima sono i CIE, i Centri di Identificazione ed Espulsione istituiti con Decreto Legge 92/2008 - “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica” -, poi convertito nella Legge 125 dello stesso anno. Cos’è un CIE? La denominazione per esteso indica un luogo deputato a identificare le persone straniere prive di permesso di soggiorno, in attesa di espellerle dal territorio nazionale. Non è così: un CIE è piuttosto un luogo finalizzato a sorvegliare donne e uomini stranieri irregolari e a punirli, attraverso una detenzione dai tempi incerti, di dubbia legittimità costituzionale, in quanto le persone scontano uno status loro attribuito, non un’azione che hanno commesso. Già previste dalla Legge 40/1998 (allora si chiamavano CPT, ovvero Centri di Permanenza Temporanea), queste strutture tanto simili a carceri non sono una esclusiva italiana, ma un simbolo delle politiche migratorie praticate dall’Occidente. È in attuazione di due direttive europee (2004/38/CE e 2008/115/CE) che il tempo massimo di trattenimento al loro interno si è esteso sensibilmente: da 30 giorni (Legge 40/1998) a 180 giorni (Legge 125/2008), ora a diciotto mesi, in base al Decreto legge 89 del 23 giugno 2011. Ci vogliono 545 giorni per identificare una persona straniera, che magari ha subito un periodo di detenzione e risulta nota, notissima all’autorità giudiziaria, tanto che le è stato revocato il permesso di soggiorno? No, non è credibile. E ci vogliono 545 giorni per rimpatriarla? Dipende… Quando si promettono espulsioni, generalmente si tacciono le difficoltà a queste connesse: accordi con i paesi di origine, organizzazione di trasferimenti, prenotazioni di voli. Senza contare casualità e accidenti: accade perciò che un’assistente familiare (una cosiddetta “badante”), incensurata ma clandestina, sia imbarcata per Lima nel giro di pochi giorni (c’era posto nella sezione femminile del CIE); e che invece un connazionale con precedenti penali, clandestino pure lui, sia rilasciato, sebbene con nuova ingiunzione a lasciare il territorio italiano (non c’era posto nella sezione maschile del medesimo CIE). Le persone non scompaiono nel nulla, “smaltirle” non risulta sempre semplice come si vorrebbe. Ma portare il limite massimo di permanenza in un CIE a diciotto mesi è inumano. È inumano perché i CIE sono strutture prive di garanzie giuridiche, quelle garanzie che uno stato di diritto, un paese civile, deve assicurare a tutti. Come scrive il giurista Fulvio Vassallo Paleologo, nei Centri di Identificazione ed Espulsione non è agito «il rispetto dei diritti fondamentali, del diritto di difesa, del diritto a un controllo effettivo del magistrato, in coerenza con l’articolo 13 della Costituzione»: per esservi trattenuti è sufficiente infatti il nulla osta del giudice di pace, con ampia discrezionalità amministrativa. Questo giudice “minore” convalida il fermo della persona straniera irregolare entro 48 ore dal suo ingresso al CIE, e ne autorizza il trattenimento, prima fino a 30, poi fino a 60 giorni; quindi concede di volta in volta proroghe per periodi non superiori a 60 giorni, fino a un termine massimo di ulteriori sedici mesi. In tutto, come si è detto, diciotto mesi.

In base al Decreto Legge 89/2011, il trattamento è esteso anche alle persone comunitarie, se già colpite da espulsione, per esempio perché prive del reddito richiesto per la permanenza sul territorio italiano. Per motivi di ordine pubblico: le persone straniere che soggiornano irregolarmente in Italia rappresentano dunque, secondo questa estensione del concetto di pericolosità, una minaccia «concreta, effettiva e sufficientemente grave» per l’incolumità pubblica. Come a dire che l’Europa non è di tutti i suoi cittadini: dei poveri lo è un po’ meno, o non lo è affatto. Un tempo i miserabili, i senza casa, erano sottratti alla vista dei laboriosi e onesti, e rinchiusi loro malgrado negli ospizi di mendicità, o negli orfanotrofi, nei manicomi, nelle prigioni.

Oggi, accanto alle prigioni, ci sono i CIE: tredici sul territorio nazionale, gestiti dalla Croce Rossa Italiana. Nei CIE non entra quasi nessuno: soltanto agenti di polizia, avvocati d’ufficio o di fiducia, assistenti sociali (pochissime) di una o due associazioni accreditate. E, a differenza che nelle carceri (almeno alcune), non si fa nulla: né attività, né corsi, né iniziative. L’intera giornata va in fumo tra le sigarette e l’attesa del turno per chiamare da un telefono a scheda. In queste condizioni, non sorprende che si moltiplichino atti di autolesionismo, tentativi di fuga, operazioni di repressione. E neppure sorprende che la Corte di Cassazione, sezione prima, con ordinanza 11050, abbia recentemente chiesto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea se sia lecito che uno stato membro (il nostro) possa agire nei confronti di uno straniero irregolare «una spirale senza fine di intimazioni al rimpatrio volontario e di restrizioni della libertà che dipendono da titoli di condanna per delitti di disobbedienza a tali intimazioni».

Diciotto mesi sono un prezzo altissimo, in termini reali, anche per lo Stato italiano: sulla base della Relazione di accompagnamento al Disegno di legge poi approvato come Legge 94/2009 – “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica” -, l’esperto di diritto degli stranieri Sergio Briguglio stima che il costo giornaliero per “ospite” di un Centro di identificazione ed Espulsione sia di 55 euro. Per diciotto mesi oltre 30.000 euro. Una cifra spropositata, letteralmente gettata via: perché l’inasprimento della detenzione né riduce gli arrivi, né aumenta il numero degli espulsi, che è anzi destinato a diminuire, perché quanto più lunghi sono i tempi di detenzione, tanto più si riduce il numero di posti disponibili nei CIE. A meno di non costruire sempre nuovi CIE (e, naturalmente, sempre nuove carceri), in nome dell’ossession e sicuritaria del nostro tempo.

Nel film di John Carpenter 1997 - Fuga da New York, l’isola di Manhattan, minati e resi impraticabili i ponti di collegamento alla terraferma, è trasformata in un’enorme prigione a cielo aperto, dove criminali, devianti e ultimi sono deportati e lasciati a sé stessi, senza possibilità di ritorno. Fantascienza? Sì, ma dà i brividi.

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