La Grecia, un voto al buio

Il volto teso del presidente Károlos Papoúlias, mentre si dice “spaventato per i pericoli” che incombono sulla sua Grecia, la dice lunga sulla situazione in cui si trova il Paese. L’affidamento dell’interim del governo e la fissazione delle nuove elezioni (il 10 o più probabilmente il 17 giugno) sono le ultime tappe di un’instabilità politica che non fa altro che peggiorare la situazione economica e sociale nazionale. Il voto del 6 maggio non ha delineato una maggioranza chiara, tale da guidare il governo di Atene. Le forze pro-europee, guidate da Nuova democrazia (centrodestra) e Pasok (socialisti), sono state punite dai cittadini. La crescita esponenziale di Tsipras, ovvero la sinistra estrema, e della destra nazionalista e xenofoba, segnalano che la realtà sociale sta esplodendo, ma non bastano ad assicurare una guida al Paese. Il ricorso ai seggi è ritenuto doveroso ad Atene, ma non è detto che il voto popolare sarà in grado di determinare nuovi equilibri politici, né sul versante filoeuropeo (accettare le ulteriori misure di rigore imposte da Bruxelles in cambio di copiosi aiuti finanziari da parte di Ue, Bce e Fmi), né su quello opposto (uscita dall’Eurozona, ritorno alla dracma, rischio default e rafforzamento della speculazione finanziaria). I greci si domandano se sia preferibile la dolorosa cura “lacrime e sangue” imposta dall’Europa per rimettere in sesto il bilancio, rimanere nell’area dell’euro e nel mercato unico, oppure se sia meglio allentare la pressione su stipendi, impiego pubblico, pensioni, accrescendo però l’incertezza sul futuro economico del Paese che, da un giorno all’altro, potrebbe trovarsi isolato in Europa e non solo.

L’Unione europea non starà però a guardare. Il vertice straordinario dei capi di Stato e di governo del 23 maggio porrà al centro dell’attenzione il caso-Grecia, benché diversi premier cominciano a dare segnali di stanchezza verso Atene, preferendo concentrarsi sulle iniziative per sostenere la crescita. Così Atene ora rischia davvero di trovarsi senza il paracadute comunitario.

Nell’incontro bilaterale del 15 maggio, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il neo presidente francese François Hollande hanno ribadito la volontà di mantenere la Grecia in Eurolandia. Ma anche in tale occasione i due leader sono apparsi altrettanto preoccupati della crisi economica che permane nell’Ue; hanno dunque confermato l’impegno per il rigore di bilancio oltre alla volontà d’inserire nel trattato “fiscal compact” le azioni per la crescita. Merkel e Hollande hanno inoltre discusso di Eurobond, di investimenti, dell’urgenza occupazione. Grecia, dunque, ma non solo.

Il caso greco piombava nel frattempo all’Eurogruppo e all’Ecofin di Bruxelles (14 e 15 maggio). In particolare la riunione dei 27 ministri economici e finanziari prendeva atto della decisione di nuove elezioni elleniche. Il presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, e quello della Commissione, José Manuel Barroso, ribadivano l’obiettivo di conservare la Grecia fra i Paesi che adottano la moneta unica. Ma era altrettanto facile constatare che più di un ministro si mostrava scettico su questa possibilità. E, per evitare sorprese, Christine Lagarde, responsabile del Fondo monetario internazionale, faceva sapere (quasi fosse un messaggio al popolo greco): “Spero che Atene non lasci l’eurozona, ma una sua uscita, sia pure concordata, fa parte delle opzioni che stiamo considerando dal punto di vista tecnico”. Ed è ciò che, sia pure con discrezione, si sta studiando da tempo a Francoforte, nell’Eurotower della Banca centrale europea.

“Il futuro della Grecia è nelle mani dei greci”, si è sentito ripetere tante volte nei giorni scorsi tra Parigi e Berlino, Roma, Londra e Bruxelles. Perfino a Washington. È una ovvietà, ma carica di incognite. Sia per il Paese mediterraneo, sia – e più che mai - per l’Eurozona e per tutta l’Europa.

Gianni Borsa

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