La grepula, chi era costei?

Nonostante le nostre vecchie care maestre elementari si siano impegnate allo spasimo per insegnarci l’italiano, vi sono casi in cui usiamo ancora oggi termini dialettali, pur all’interno di un discorso in lingua. E non per un vezzo, ma spesso per ignoranza dell’equivalente italiano. Tanto per fare un esempio (e per vedere se sono solo io l’ignorante): come si chiama in italiano lagrepula? Prima però dovremo spiegare ai non dialettofoni di che cosa si tratta. La grepula è l’incrostazione lasciata dal vino sul fondo delle botti o sulle pareti delle bottiglie; estensivamente si usa per qualsiasi incrostazione o deposito, lasciati da acqua, latte o altro. È un termine diffuso fra Lombardia, Emilia e Veneto, proveniente forse dal longobardo attraverso il provenzale gripper, ‘afferrare’, ‘aderire’ (parola che ci ricorda quello che in linguaggio tecnico si chiama grippaggio, cioè l’adesione di due superfici a contatto, con blocco del funzionamento, ad esempio in un motore). Bene, la grepula lodigiana in italiano si chiama gromma. Dal fondo incrostato risaliamo rapidamente in superficie, e qui può capitarci di trovare la carpia. È quella pellicola che si crea sulla superficie del latte bollito o del vino (o anche la velatura che appare talvolta sull’occhio), la cui forma ricorda la ‘ragnatela’, che è il significato primario del nostro carpìa. Anche questa voce, con minime variazioni, è diffusa in tutto il settentrione e, con accezioni più ampie, anche in Toscana e in Abruzzo. Carpìa nasce dal latino tardo carpita vestis, espressione abbreviata nell’italiano antico in carpita, che indicava un panno con pelo lungo con cui si facevano coperte per il letto e vestiti grossolani per la stagione fredda. Un altro nome popolare della ragnatela è telamora (anche tila - o talamora), cioè ‘tela scura’, presente anche nei dialetti del Comasco, del Bergamasco, del Bresciano, del Cremonese. Molti ricorderanno come le carpìe venissero usate dai nostri nonni per curare piccole ferite, grazie, come si è scoperto più tardi, ad un loro moderato effetto antibiotico. Il “panno” peloso da cui nasce linguisticamente la carpia ci arriva dal latino pannus, che ha dato origine anche alla parola panna (lod. pana), perché si presenta come un “panno” sulla superficie del latte. I milanesi invece la “crema del latte” la chiamano pànera, come testimonia uno scritto di Ugo Foscolo in cui il poeta definisce “Paneropoli” (‘città della panna’) il capoluogo lombardo (“Tangentopoli” e “Affittopoli” sarebbero arrivate secoli dopo). Da noi invece le pànere sono soltanto le lentiggini. Questo curioso accostamento si giustifica col vedere le macchie sulla pelle simili a piccoli lembi coprenti parte del viso, così come la panna ricopre il latte come un velo. L’associazione panna-lentiggini non è però una nostra bizzarra invenzione: in Valtellina le lentiggini sono dette pànule; nel Cremasco pànere; nel Piacentino pani; nel Bresciano, nel Mantovano e nel Veneto pane. Attenti però anche a non confondere la panna con il pane: la minestra panusa (dal brodo “denso e opaco come fosse panna”) è ben diversa dalla panada (avanzi di pane cotti nel brodo, in italiano: pancotto).Dalle macchie del viso a quelle delle unghie: le busìe. Da bambini ci dicevano che queste macchioline bianche erano provocate dalle bugie che raccontavamo: si trattava di una diffusa credenza popolare o, se vogliamo, era essa stessa una grossa bugia.

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