Dipendenti dal petrolio e dipendenti dal gas. La notizia della possibile firma Tsipras-Putin, a san Pietroburgo il 18 e 20 giugno, di un protocollo di intesa per il passaggio sul suolo greco del gasdotto Turkish Stream, progetto nato dalle ceneri del “South Stream”, ripropone il tema dell’approvvigionamento energetico dei Paesi europei. Più volte, in passato, il premier greco Tsipras, alle prese con la crisi economica e finanziaria interna, ha lasciato trapelare la possibilità di un avvicinamento a Mosca nel tentativo di trovare nuove fonti di finanziamento per il Paese. Una scelta che proietterebbe la Grecia in orbita russa, non senza qualche preoccupazione europea e americana. Da sempre l’obiettivo per i Paesi dell’Ue è quello di dotarsi di infrastrutture adeguate per il trasporto del gas come si evince anche dai documenti che delineano “la strategia energetica europea al 2020”, “le guidelines della politica energetica al 2030” nonché la “energy roadmap al 2050”. Vere e proprie tabelle di marcia necessarie agli Stati membri per attivare politiche sostenibili e piani strategici di più ampio respiro capaci di trasformare il sistema energetico europeo nell’ottica di una decarbonizzazione e di una maggiore sicurezza dell’approvvigionamento. Tutte scelte di medio lungo termine che, tuttavia, sembrano non rispondere incisivamente all’urgenza imposta dall’attuale momento storico. Complice anche il fatto che la politica energetica viene gestita autonomamente dai diversi Stati membri dell’Ue senza il coordinamento di Bruxelles. In questo braccio di ferro energetico, la Russia al momento sembra prevalere e infrastrutture come “Blue Stream” che trasporta gas naturale dalla Russia alla Turchia, attraverso il Mar Nero, il “North Stream”, capacità 55 miliardi di metri cubi all’anno, che unisce direttamente, tramite condutture sottomarine, la Russia alla Germania, bypassando Stati Baltici e Polonia e “South Stream”, 63 miliardi di metri cubi all’anno, progetto poi congelato a causa delle sanzioni Usa e Ue, dove la russa Gazprom era impegnata con l’italiana Eni, la francese Edf e la tedesca Basf-Wintershall, sembrano chiudere il cerchio a favore di Putin e soprattutto mettere fine alle dispute tra Mosca e Kiev che avevano portato all’interruzione dei flussi all’Europa nel 2006 e nel 2009. Bisogna, infatti, ricordare che circa il 40% del gas che l’Europa consuma viene dalla Russia e una metà di questo, oltre 80 miliardi di metri cubi all’anno, transita per l’Ucraina. Risulta evidente la dipendenza di molti Stati occidentali dalle forniture russe e altrettanto urgente appare la necessità per l’Unione europea di raggiungere una maggiore indipendenza energetica, cosa che poteva essere garantita dalla costruzione, tramontata, del gasdotto “Nabucco” patrocinato dall’Ue e dagli Usa, che dal Caucaso avrebbe dovuto far arrivare il gas in Europa. Un corridoio sud del gas, attraverso il quale l’Europa avrebbe attinto gas dall’Arzebajan, Turkmenistan, Iraq e successivamente dall’Uzbekistan e dall’Iran. Per diversificare le forniture di gas, più fattibile appare, oggi, puntare su un’altra infrastruttura: il gasdotto Trans Adriatico (Tap) progettato per veicolare in Italia 10 miliardi annui di metri cubi di gas dell’Azerbaijan attraverso Grecia e Albania. Ma le domande dell’Europa sono anche altre: fin quando sarà possibile contare su altri Paesi fornitori come Egitto, Libia, Algeria, per non dire dell’Iraq e della Siria, Paesi mediorientali in cui la situazione è di alta tensione e minacciati dal terrorismo? In questo contesto la Russia ha un peso notevole e soprattutto può giocare un ruolo di primo piano nella soluzione delle crisi regionali (Siria e Isis). La certezza è che chi avrà il controllo della regione e dei suoi giacimenti petroliferi e gasdotti, venderà il gas all’Europa. Sarà la Turchia, il Qatar, che pure è uno dei più grandi esportatori di gas naturale o l’Iran, quando avrà risolto il suo problema con le sanzioni internazionali e pronto ad esportare il suo gas attraverso Iraq, Siria, Caucaso e Mar Nero? Lo scenario energetico internazionale presenta anche altri attori, come la Cina, Paese con grandi interessi nell’Asia Centrale che ha messo sul tavolo ben 65 miliardi di dollari per un gasdotto che dovrebbe unirla alla Russia. L’altro sono gli Usa che, con lo “shale gas” (estratto dalle rocce con perforazione idraulica), puntano all’indipendenza dalle importazioni dal 2030. Intenzione degli Usa, adesso, è di venderne 90 miliardi di metri cubi l’anno. A farne le spese saranno Russia e Medio Oriente. E l’Ue? L’Europa ha giacimenti considerevoli in Romania e Polonia, ma per l’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, “si tratta di una tecnica che ha bisogno di grandi spazi e le condizioni ambientali non sono favorevoli in Europa perché è molto invasiva come tecnica”. La sfida resta aperta: trovare nuove fonti energetiche senza alimentare altri conflitti.
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