La poesia degli uomini della tempra di Bassiano

Fanno quasi sorridere, per la loro ingenuità, le leggende medievali che hanno scolpito i tratti più famigliari della statua di san Bassiano. Se non ci fosse stato quell’avventuroso viaggio nella foresta, con il pietoso incontro con una famigliola di cervi, gli scultori e i pittori di ogni epoca sarebbero rimasti penosamente senza dettagli e colori utili per ritrarre la figura del santo. La storia, infatti, ci racconta molto poco. Solo qualche documento che testimonia la firma del nostro, messa in calce a importanti dichiarazioni dottrinali. In fondo si tratta solo di una fessura. Di un piccolo buco di serratura. Elementi così modesti non sono niente: eppure, spiando il panorama attraverso di essi, ci possiamo immaginare un mondo solido, dove gli ultimi uomini dell’Impero romano, ormai sempre più convertitosi al cristianesimo, gettavano le basi per il futuro della nostra civiltà. Quelle basi si riveleranno solidissime. Ressero a quell’alluvione dei grandi fiumi del nord – il Reno, il Danubio – il cui alveo sarebbe stato presto oltrepassato da nuovi popoli, desiderosi di impossessarsi della gloria e del potere di Roma. È in questa maniera, da questo connubio tra mondi che si erano a lungo detestati, che nasce finalmente il medioevo.Ma alle leggende che raccontano la storia di Bassiano, poco o nulla importa di questo passaggio epocale. Hanno occhi solo per il meraviglioso: per i miracoli che fuoriescono copiosi dalle mani di questo cittadino romano convertitosi al cristianesimo, e per la coltivazione di virtù che caratterizzò la sua umanità. Così, a leggerli adesso, questi racconti fantasiosi sbrodolano di melassa. Bassiano non sembra essere un uomo come noi: santo un po’ troppo formidabile, proiettato in un universo estremo, capace di prodigi che hanno dell’incredibile. Così improbabili che alla fine la gente non concede più loro alcun credito. La moderna agiografia avrebbe presto mandato in frantumi queste leggende, bollandole come storie non verificabili, perciò inadatte per costruirci sopra il monumento della fede. Finiranno così sugli scaffali degli studiosi: non più pane per il popolo cristiano, ma merce da vivisezionare, da comprendere come letteratura sui generis, da ammirare per quel prodigioso incastro tra favola e realtà che in fondo è l’asse portante di ogni narrazione. Solo di recente qualcuno ha espresso un parere di senso contrario. Qualche studioso ha catalogato, accanto alle ricerche che scavano nel passato, anche un nuovo genere letterario, quello della storia “poietica”. È la storia che guarda al futuro, e che vuole plasmare (“poiesis”, in greco) anche una vicenda nuova, quella che riguarda tutti noi, e che diventa nostro compito. Perché è facile credere che san Bassiano dorma in un’urna di cristallo messa a fondamento di una città ricostruita. Molto più complicato è credere che i miracoli contenuti nella sua leggenda sono personaggi in cerca d’autore, che non hanno pace finché qualcuno non riesce a realizzare i prodigi che sono lì riportati. San Bassiano dunque inquieta, ed in parte conforta. Ci dice che la vita non è bella, finché non diventa musica, o poesia. La stessa musica, la medesima poesia che qualche volta, nella vita, mi è sembrato di carpire, in tanti uomini della stessa tempra di Bassiano, che non hanno ceduto alla disperazione. Uomini che hanno custodito un animo da fanciullo, che si sono ostinati a guardare all’esistenza da un’altra prospettiva. Uomini che mi sembra di riconoscere ogni anno nella gente che struscia lenta fin nella cripta della cattedrale. E che toccando l’urna con la mano pare voglia esporsi al contagio di qualche miracolo che il santo non ha fatto in tempo a finir di confezionare.

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