Mario Cervi, giornalista, editorialista e scrittore, ha posto di recente una questione che mi sembra degna di attenzione: la scuola è annoiata. Tanto per stare in tema, è opinione diffusa che la scuola oggi faccia fatica a trasmettere interesse, entusiasmo, voglia di fare e questo vale tanto per gli insegnanti che per gli studenti che di questi valori sono destinatari. Gli studenti o sono prigionieri del passato e trovano nei soliti slogan la forza di gridare il proprio dissenso, ricorrendo talvolta anche a comportamenti violenti, o appaiono svogliati, annoiati al punto da sentire il clima scolastico come un insopportabile habitat che inibisce la voglia di ricerca, la voglia di sentirsi protagonisti, in fin dei conti di amare la cultura. Con gli insegnanti la situazione non è poi così diversa. E’ risaputo che gli insegnanti attraversano un periodo a dir poco avverso. Scarsa considerazione sociale, bassa retribuzione, precarietà professionale, confronto deludente in tema di risultati nei rapporti internazionali sono solo alcuni dei guai che accompagnano la professione docente. E come se non bastasse, ecco il Ministro Gelmini spiegare le motivazioni di fondo che sono alla base dei recenti tagli nella scuola. «Gli insegnanti italiani guadagnano meno che altrove perché stiamo pagando scelte politiche del passato come l’aumento di cattedre e ore per fare della scuola un ammortizzatore sociale». Ad onor del vero soprattutto dalla fine degli anni sessanta la scuola viene a trovarsi compressa tra una forte spinta unitaria tutta protesa ai cambiamenti del tessuto sociale, e una persistente pressione sindacale tanto da mettere in luce tutta la sua vulnerabilità. Come risultato si ha un notevole incremento del corpo docente richiesto per far fronte ai grandi numeri. Siamo di fronte a una scuola di massa che veniva, in un certo senso, consacrata dagli effetti della riforma della scuola media obbligatoria, mentre certi insegnamenti vedevano la compresenza di più insegnanti. Le cattedre si moltiplicano come funghi al sole dopo la pioggia. Ora a detta di molti tutto questo ha contribuito a fare della scuola non una opportunità di crescita per gli studenti, ma un’opportunità occupazionale per i docenti quale risposta alle spinte sociali che avevano nei movimenti e nelle piazze un’ottima cassa di risonanza. In realtà siamo agli inizi della fine laddove il tempo darà ragione a chi vedeva in tutto questo un’occasione per capire una realtà come quella scolastica che conoscerà di lì a pochi anni un declino a causa dei suoi stessi mali. Docenti che con il passare degli anni si sono sentiti derubati della loro stessa autorevolezza; genitori che oggi guardano alla scuola con occhi minacciosi, pronti a scendere in campo per confrontarsi con chi quell’autorevolezza l’ha smarrita. Sembra quasi di ritrovarsi davanti a censori rigorosi, figli del costume dei nostri tempi. Talvolta dai tanti fatti di cronaca che i mass media ci raccontano, con docenti protagonisti, si ha la sensazione di trovarsi di fronte a una grave perdita di credibilità sino a rasentare il dubbio sulla stessa capacità professionale. Emblematica la provocazione di Thomas Carlyle, filosofo e saggista scozzese che a tal proposito amava dire: «Nei riguardi di ogni uomo, qualunque sia il suo rango, si potrebbe chiedere: “Siete sicuri che non sia un citrullo?”». Per fortuna non si riferiva agli insegnanti. Il problema si fa più pesante con gli studenti. Gli ultimi anni la società ha consegnato alla scuola studenti annoiati e stanchi con scarsa voglia di studiare. Studenti catturati da interessi relazionali, espressione di una tecnologia sempre più esasperante che mal si concilia con gli interessi della scuola. Studenti con poche idee, ostaggi di una scarsa padronanza lessicale, limitata e scorretta, diretta conseguenza di un impegno superficiale e poco serio. Studenti spalleggiati, talvolta, da genitori sempre più decisi a scendere in conflitto con gli insegnanti ritenuti non più in grado di essere all’altezza del compito loro assegnato oltrechè professionalmente demotivati. Un quadro deludente che non fa sperare nulla di buono. Merita la scuola una descrizione così poco rassicurante? Forse sì e non perché vivo la realtà, per dirla come Dante «in gran dispitto». Anzi. Le mie argomentazioni hanno solo la pretesa di cercare delle risposte che non sempre arrivano. Personalmente sono del parere che in una società come la nostra si può crescere solo se a ognuno venisse riconosciuto il proprio ruolo e questo vale soprattutto quando l’attenzione è rivolta a un contesto scolastico, dove gli attori sono diversi: presidi, docenti, personale, studenti, genitori. Una sintesi concettuale potrebbe essere: agli studenti il compito di studiare, ai docenti il compito di insegnare, ai genitori il compito di educare. Sembrerebbe una semplice divisione dei ruoli e invece pare che tutto nella scuola si complica. Tant’è che gli studenti fanno fatica a vivere con serietà il loro ruolo, i docenti vengono spesso fatti oggetto di contestazioni e i genitori delegano ad altri quello che in fin dei conti è il primo compito a cui sono chiamati per vocazione: educare i figli. Cominciamo, quindi, col rendere interessanti le lezioni riscoprendo il gusto della ricerca quale metodo da privilegiare poiché consentirebbe di utilizzare le conoscenze acquisite. Trasmettiamo ai ragazzi l’entusiasmo del fare, proprio perché i ragazzi hanno bisogno di esempi positivi che sappiano trasmettere fiducia, rispetto e amore in quello che si fa. In classe ogni docente, bando ad un atteggiamento cattedratico, dovrebbe sforzarsi di piacere per il modo di rapportarsi, per il modo di trasmettere energia e voglia di capire, scrutare, amare ciò che propone. Solo così cresce in gratitudine. Già Biante, uno dei sette saggi di Atene, ammoniva: «Nella città in cui abiti sforzati di piacere a tutti i cittadini. Questo produce, infatti, massima gratitudine, mentre un contegno altero è causa spesso di dannosa pena». E se vale per i cittadini, a maggior ragione può valere per gli studenti in classe.Ai genitori una raccomandazione: con i figli non siate presenti-assenti.
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