L’a tirad una leca e l’a fai gol

Non contenti di quante “n’em ciapade” la scorsa puntata, porgiamo evangelicamente l’altra guancia per prenderci un paton. Colpo che ci rafforza nella convinzione che la conoscenza dei dialetti favorisce quella dell’italiano e di altre lingue, con buona pace delle nostre maestre Anni ’50, caparbiamente dialettofobe.Infatti anche il regionale paton - con i suoi fratelli del tipo pattone - è figlio dell’italianissimo patta, ‘colpo dato con la mano aperta’, e quindi ancora ‘ceffone, scapaccione’.E le altre lingue? Basta allontanarci un poco di più per scansare il colpo, ma anche per trovare nel francese patte e nello spagnolo e portoghese pata la nostra ‘zampa’, e scoprire quindi nel nostro paton la zampata franco-iberica.Ma torniamo in patria, ricordando una frase minacciosa: “Te moli una papina”. Papina è innanzitutto diminutivo di pappa, come l’italiano pappina, che è l’impiastro di semi di lino usato a scopo curativo, detto anche cataplasma (lod. pulentina). Lo si spalmava sulla pelle sfregando con il palmo della mano aperta, e di qui - e forse anche dal conseguente arrossamento della pelle - nasce il significato di ‘schiaffo’ che troviamo in moltissimi dialetti settentrionali.Se la minaccia di papine può sembrare troppo blanda, con la frase “te tiri una leca” promettiamo interventi ben più pesanti. La leca, che in forme simili compare in molti dialetti del nord, come nell’emiliano siläcch o nel veneto-giuliano straleca, è infatti una sberla molto forte. Non ha alcuna relazione con il verbo leccare (lod. lecà), ma viene accostato a salacca o scilacca, termine inusuale di probabile derivazione dall’antico germanico slag, che troviamo oggi nel tedesco Schlag, colpo.L’estensione al significato generico di colpo la incontriamo anche in alcune nostre espressioni quali “ò ciapad una leca” (‘ho preso una forte scossa elettrica’), “l’à tirad una lecae l’à fai gol” (frase del gergo calcistico) ecc.La mano aperta, da mezzo per schiaffeggiare si può però trasformare in uno strumento di amicizia e di pace, come quando si saluta o si dà la mano. Se è chiusa a pugno, preannuncia invece soltanto casoti e catafighi. Il termine casot (con la esse aspra di aspro, mentre con la esse dolce di glucosio prende il significato di ‘confusione’) ricalca fedelmente l’italiano cazzotto: “fà a casoti” vuol dire infatti ‘prendersi a pugni’.Un pugno speciale, a quanto ci risulta soltanto lombardo, è il catafigh, che abbiamo già trattato in altra occasione ma che ricordiamo per chi si è perso la relativa puntata. Il catafigh (o catafighi) è in origine, come dice il nome, l’attrezzo apposito per cogliere i fichi, formato da una scatola di lamiera con bordo dentato posta in cima ad un lungo bastone. Lo slittamento di significato nasce dall’osservazione del movimento richiesto per staccare i frutti dal ramo, cioè un colpo dal basso verso l’alto che taglia il picciolo (lod. picam): un po’ come l’uppercut (‘montante al mento’) in gergo pugilistico.Sempre di area lombarda è la tiga: ‘sberlone’, ‘pugno o colpo molto forte’; ma anche ‘peperone’ e, in senso traslato, ‘naso vistoso’. Si può ipotizzare che il significato di ‘colpo’ nasca da quello di ‘naso’, cioè l’azione prende il nome dal “bersaglio”.E non sarebbe un caso isolato: la scülasada insegna.

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