Sto scrivendo queste considerazioni mentre si tengono le elezioni in Grecia, elezioni che possono dare il via ad un processo che può portare alla disintegrazione della moneta unica. Si tratta di una possibilità che anche nel nostro paese trova autorevoli sostenitori. Uno di questi è sicuramente il Movimento 5 Stelle, una formazione politica che, così decretano le recenti elezioni amministrative ed i sondaggi, risulta prepotentemente in ascesa e che ha fatto della proposta di fuoriuscire dall’euro e di tornare alla vecchia lira uno dei propri punti di forza, questo anche con il sostegno di economisti più o meno autorevoli. L’altro è l’ex Presidente del Consiglio che, a detta di alcuni giornali, sembra sia molto attratto da una proposta che, assieme all’altra recentemente avanzata di elezione diretta del Presidente della Repubblica, servirebbe a rilanciarlo come protagonista nell’agone politico. Ora, mentre nel caso del movimento 5 Stelle si tratta di un nuovo populismo che cerca di sfruttare il malcontento e la frustrazione presente in larghi strati della società italiana, di cui il forte astensionismo registrato alle ultime elezioni amministrative è un segnale estremamanete preoccupante, nel caso del vecchio populismo berlusconiano, c’è da augurarsi che cittadini ed elettori si siano resi conto che la proposta politica dell’alleanza destra-lega sia stata del tutto fallimentare su due punti in particolare: il primo è quello legato alla pressione fiscale a carico dei cittadini. Una destra che adesso richiede a viva voce la riduzione delcarico fiscale, in 10 anni di governo effettivo non ha realizzato nulla del proprio programma su questo aspetto, anzi ha incrementato la pressione fiscale prima di tutto nei confronti dei percettori di reddito da lavoro dipendente e pensionati, favorendo in questo modo una redistribuzione di reddito a favore di profitti e rendite, che, adesso, deprime l’economia anche attraverso il calo dei consumi. L’altro è quello del federalismo, che, lungi dal ridare autonomia agli Enti Locali, si è tradotto in un ulteriore incremento della tassazione locale, senza una corrispondente riduzione di quella nazionale, che è, invece, aumentata. Ma torniamo all’euro. Da parte mia ho manifestato più volte, anche se in maniera non del tutto esplicita, le riserve nei confronti della moneta unica europea non perchè non abbia condiviso la scelta dell’orizzonte europeo come nostro riferimento, ma perchè la considero espressione di un processo incompiuto di costruzione di una reale unità politica che, proprio in quanto non portata a realizzazione, sta mostrando prepotentemente le sue crepe soprattutto all’interno della fase attuale di profonda crisi economica e sociale. E ritengo che i costi che i cittadini italiani sono stati chiamati a pagare nel 2001 quando si è realizzata la conversione , costi pesanti e mai dichiarati, che stanno alla base del forte processo di impoverimento di buona parte dei lavoratori e delle lavoratrici dipendenti (la vecchia classe operaia) ma anche di parte del ceto medio, e del processo di redistribuzione del reddito che si è realizzato dal salario al profitto, non giustifichino questo stallo. (Ed a proposito di costi mi sento di portare alcuni esempi: mentre retribuzioni e pensioni hanno avuto una conversione rapportata alla parità individuata fra lira ed euro, per cui il salario di 2 milioni delle vecchie lire è stato trasformato nel valore di mille euro, così non è stato per i prezzi dei beni di consumo e dei servizi che hanno adottato il rapporto di 1 a 1 per cui oggi l’affitto di una casa, che costava, prima dell’introduzione dell’euro, mediamente 300/400 mila lire costa almeno 400/500 euro, un paio jeans medi che costava meno di 100.000 lire oggi costa mediamente 100 euro, e la bolletta del gas, della luce, del telefono scontano un effetto ancora più pesante). Sulla base di questi elementi ci possono essere buone ragioni per impostare posizioni politiche che sostengano la fuoriuscita dall’euro, ma queste posizioni per essere serie devono dire con chiarezza a cittadini ed elettori quali possono essere i pro e i contro di una tale scelta ed i rischi e le opportunità connesse. Cerco di evidenziarne alcuni partendo dalla esplicitazione della motivazione più corposa che viene portata a sostegno di tale scelta, e cioè che riprendendo, attraverso il ritorno alla vecchia lira, il governo della propria moneta, si potrebbe ricorrere al vecchio meccanismo della svalutazione del cambio lira contro le altre monete, per ridare competitività alla nostra economia, in questo modo sostenendo la struttura produttiva del nostro paese.Innanzitutto ocorre considerare se una politica di questo genere può essere effettivamente realizzata. In un quadro di globalizzazione finanziaria come quella oggi presente, noi ci troveremmo nelle condizioni di Davide contro Golia, per cui è tutto da vedere che gli altri paesi europei, Germania in testa, le istituzioni monetarie internazionali e poi USA, Cina e quanti altri ci sosterrebbero in una scelta del genere. La seconda riguarda la competitività del sistema: la svalutazione della nuova moneta, a quale struttura produttiva contribuirebbe a ridare fiato? Non è un mistero che quella del nostro paese si è notevolmente indebolita nel corso di questi ultimi anni, per cui l’Italia che prima era prevalentemente un paese trasformatore di materie prime importate dall’estero, oggi con il processo di delocalizzazione di molte delle nostre industrie storiche si trova a dovere importare prodotti finiti che prima produceva nelle sue fabbriche. Emblematico da questo punto di vista è il caso Fiat, che oramai sta progressivamente procedendo alla chiusura degli stabilimenti nazionali. Per cui la domanda chi intendiamo favorire e quale politica industriale può essere sostenuta da un tale processo, richiede una risposta seria. La terza è che essendo la svalutazione un’arma a doppio taglio, in quanto riduce i prezzi all’esportazione, ma aumenta quelli all’importazione, ciò comporta il rilancio di un processo inflazionistico il cui peso andrebbe a scaricarsi ancora una volta sui soggetti più deboli accentuando un processo che il concambio da euro a nuova moneta contribuirebbe già di per se ad attivare. Come ci hanno insegnato le esperienze passate l’inflazione è una tassa occulta che attua un processo di redistribuzione da reddito fisso agli altri percetori di reddito, contribuendo a peggiorare condizioni di vita già precarie, senza garantire una ripresa occupazionale. Per queste ragioni non ritengo da parte mia percorribile questa strada, ma penso, allo stesso tempo, sia necessario che forze politiche o movimenti che aspirano ad essere forza di governo, debbano chiarire se questa opzione può rientrare in un progetto serio, oppure servono solamente a sollecitare la pancia degli elettori, per ricavarne consenso a poco prezzo. Non è è ciò di cui c’è bisogno!
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