Negli ultimi anni l’acqua è stata un tema importante nell’agenda politica italiana e una questione dirompente in diverse realtà locali in cui sono venuti al pettine i nodi connessi alla sua privatizzazione. Ma a dare dimensione nazionale alla questione è certamente stata l’approvazione delle Decreto Ronchi del 20 novembre 2009, che obbliga alla privatizzazione del servizio idrico - nella misura prima del 40% e poi del 60% - tutte le realtà locali che hanno mantenuto una gestione totalmente pubblica dell’acqua; a quelle realtà che negli ultimi quindici avevano già imboccato la via della privatizzazione viene invece imposto di far salire entro il 2015 la quota dei privati al 70%. Ai cittadini, rappresentati dal Forum dei movimenti per l’acqua pubblica, non è quindi rimasta altra scelta che la raccolta delle firme per chiedere un referendum abrogativo. Un referendum che passerà alla storia per due primati: il numero delle firme raccolte (1.400.000) e il fatto di essere stato promosso non da partiti ma da associazioni. Ci attendiamo che il 12-13 giugno prossimi - in cui si svolgerà il referendum - possa essere conseguito anche un terzo primato: il quorum dei partecipanti, che manca agli appuntamenti referendari da quasi venti anni. L’abbinamento con il referendum contro la reintroduzione del nucleare – anche alla luce di quanto avvenuto a Fukushima - potrebbe favorire lo storico primato.In questo primo decennio del XXI secolo il sistema finanziario, alla ricerca di investimenti garantiti e protetti, ha posato il suo avido sguardo su beni comuni e servizi pubblici essenziali alla qualita della vita, nella certezza di rendimenti elevati e sicuri anche in tempo di listini borsistici deludenti. Ma i beni comuni - e l’acqua è il principale di essi, per la sua insostituibilità nel ciclo della vita - non devono essere alienabili né privatizzabili, perché sono di competenza delle comunità di appartenenza. Pertanto non possono essere gestiti in modo appropriato dal mercato, che è per definizione finalizzato al profitto: la gestione dei beni comuni deve essere affidata a soggetti che non hanno fini di profitto. Per questo viene sottoposta ad abrogazione anche la norma che consente al gestore del servizio idrico di ottenere, caricandolo sulla bolletta dell’acqua, un profitto garantito nella misura del 7% del capitale investito, senza alcun collegamento a qualsiasi logica di reinvestimento per il miglioramento qualitativo del servizio.Per aggirare l’incompatibilità tra mercato e beni comuni/servizi pubblici essenziali, è stato escogitato il trucco giuridico della separazione formale tra proprietà del bene, che rimane demaniale, e la sua effettiva gestione, affidata a operatori economici con capitali pubblici e privati. Ma la proprietà formale conta assai poco, mentre sono i gestori ad avere il potere effettivo: a fissare i prezzi, a decidere gli investimenti e i messaggi da rivolgere agli utenti.Quasi vent’anni di privatizzazioni in Italia hanno comportato alcuni fenomeni costanti: aumento dei prezzi al consumo, declino degli investimenti, aumento del budget per la pubblicità, aumento degli stipendi dei managers, aumento delle spese per consulenze. Ricerche condotte da qualificati Centri Studi hanno dimostrato che in Italia il pubblico, in termini di controllo dei prezzi e di ammontare degli investimenti, ha funzionato meglio del privato, anche quando quest’ultimo è stato regolamentato. Le numerose esperienze di “cattura del regolatore” dimostrano che il potere e la forza del privato possono compromettere la funzione del controllore: così abbiamo casi in cui, nonostante il pubblico abbia la maggioranza del capitale, le delibere devono però essere prese con una “maggioranza qualificata” che obbliga a ricercare necessariamente il consenso dell’azionista privato.Rimettere in discussione il problema della gestione dell’acqua può anche diventare un’occasione storica per cercare soluzioni nuove: uscire dal Novecento, compresso tra le categorie ideologiche dello “stato” e del “mercato”, come regolatori unici nella soluzione dei problemi di interesse collettivo, per sperimentare un’alternativa basata sulla valorizzazione di istituzioni collettive espressione dei movimenti o delle forme organizzate della società. In concreto l’acqua gestita non soltanto dallo Stato o dal mercato, ma anche dalla società civile in grado di esprimere imprese efficienti senza lo scopo della massimizzazione del profitto. La stessa Costituzione italiana, all’articolo 43, ha prefigurato una soluzione del genere quando afferma che i servizi pubblici essenziali devono essere affidati, oltre che allo Stato e agli enti pubblici, anche “a comunità di lavoratori o di utenti”, quindi a rappresentanti dei cittadini, delle associazioni, dei comitati, dei movimenti, dei lavoratori: un nuovo modello di “pubblico”, un modello di “democrazia partecipata”, alternativo al pubblico monopolizzato dai partiti.L’acqua è di tutti, è un bene comune: consegnarla in mano ai procacciatori di profitti significa dilapidare un capitale costruito dalle scelte lungimiranti delle generazioni passate, indebolire la democrazia.
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