Un’altra estate calda è tornata, un’altra estate che vede le campagne terreno di lotta per migliaia di nuovi schiavi, per lo più migranti irregolari rastrellati dai cosiddetti caporali. Intanto ieri sono stati condannati da 3 a 11 anni di reclusione 12 dei 15 imputati comparsi davanti ai giudici della Corte d’Assise di Lecce, in quanto ritenuti responsabili di associazione a delinquere e riduzione in schiavitù di migranti impegnati nella raccolta di angurie nelle campagne di Nardò (Lecce). La sentenza di primo grado del processo chiamato “Sabr” viene emessa dopo l’operazione che nel 2012 portò nel Salento all’arresto da parte dei carabinieri del Ros di imprenditori capi squadra e “caporali” di nazionalità straniera. Tra le parti civili costituite c’è anche il presidente dell’associazione “No Cap”, Yvan Sagnet, ingegnere camerunense di 31 anni, protagonista sei anni fa della grande rivolta contro i caporali di Masseria Boncuri. Durata quasi due mesi riuscì a dare, per la prima volta, un’eco nazionale allo sfruttamento a cui sono sottoposti gli immigrati e i poveri delle nostre città. Dopo quella rivolta Yvan ha lasciato i campi e ha deciso di lottare per i diritti degli sfruttati. «C’è stato un lavoro notevole in questi anni di denuncia che sta producendo risultati – dice Yvan –. Le decine di arresti e le numerose operazioni di polizia di questi mesi sono il frutto di un lavoro fatto a monte. Denunce che hanno portato alla legge contro il caporalato». C’è però ancora tanto da fare soprattutto in tema di prevenzione: «Questa legge è repressiva. Servono sistemi di controllo, una riforma dei centri dell’ispettorato del lavoro e una riforma del mercato del lavoro. E dobbiamo continuare a denunciare. Se manteniamo la tensione alta rispetto a questo sistema, siamo sicuri che nell’arco di pochi anni potremmo avere risultati notevoli».
Una prevenzione che deriva soprattutto dal dare la possibilità alle vittime di poter denunciare i soprusi, tutelarle e non lasciarle sole dopo la denuncia. «E parliamo soprattutto di migranti che sono la parte più vulnerabile dei lavoratori, perché per la maggior parte clandestini. Per fortuna per loro ci sono gli articoli 18 e 19 della legge 198 che consente di dare il permesso di soggiorno al lavoratore che denuncia lo sfruttamento». Le associazioni come quella di Yvan, in collaborazione con iniziative come il Progetto Presidio della Caritas, permettono ai più deboli di poter rivendicare i propri diritti.
Secondo Yvan e l’associazione “No Cap”, non si può però parlare di sfruttamento del lavoro senza discutere di etica del mercato e del lavoro. «I piccoli produttori devono competere con la grande distribuzione. Questo li introduce in un meccanismo dello sfruttamento così da aumentare il margine di profitto sulle vendite – ricorda Yvan -. Abbiamo portato una proposta in Parlamento per introdurre una norma sulla certificazione etica della filiera, che però non è stata presa in considerazione. In Italia esistono certificazioni di qualità Bio dei prodotti ma non una certificazione di un lavoro svolto in condizioni ottimali». Dove però non arriva la legge, si muovono i cittadini. Così “No Cap” ha avviato una rivoluzione dal basso costruendo le basi per una certificazione internazionale che dia la garanzia di un prodotto di qualità lavorato nel rispetto dell’ambiente e nel rispetto dei lavoratori.
«I prodotti avranno il marchio No Cap, garanzia di una tracciabilità delle filiere virtuose. Porteremo sul mercato questi prodotti grazie alle tante realtà sparse in Italia che hanno invertito la rotta a favore di un mercato equosolidale. È un processo culturale che può funzionare, che determina un’autocoscienza della gente. Se questa battaglia culturale la vinciamo, daremo una risposta a questa brutta piaga senza doverci affidare all’aiuto dello Stato. È un lavoro che parte dal basso e che mette tutti i cittadini al centro della lotta.
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