«Un insegnante che si fa uno spinello ogni tanto è compatibile con l’insegnamento?». E’ la domanda posta a Mimmo Pantaleo sindacalista alquanto noto nell’ambiente scolastico. «Secondo me sì, - è stata la risposta - come avviene in tante parti del mondo….. Se si scoprisse che un insegnante è drogato non può insegnare, ma vanno fatte distinzioni tra uso di droghe leggere e pesanti». È questa la dichiarazione rilasciata durante un’intervista alla radio che, com’era prevedibile, ha scatenato un putiferio di reazioni. Tutto è cominciato con un’insegnante di una scuola elementare di Firenze che, nascosta nel bagno della scuola, si è drogata rischiando la vita. L’hanno trovata riversa per terra con il laccio emostatico ancora legato al braccio.
I tempestivi soccorsi hanno evitato che un gesto così drammatico si trasformasse in una tragedia personale. Ma tanto è bastato per rinfocolare una discussione che già in passato era stata sollevata dal parlamentare Carlo Giovanardi quando si espresse favorevolmente per un test antidroga riservato ai parlamentari. Ovviamente, anche in questo caso, è lo stesso Giovanardi, oggi sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alle politiche antidroga, a riportare l’attenzione su un problema che col tempo sta diventando preponderante. Per Giovanardi «se un insegnate ha anche un minimo problema di droga va sicuramente curato, ma nel frattempo allontanato dall’insegnamento attivo e posto a svolgere altre mansioni non a rischio, tutelando il suo posto di lavoro come prevede la legge, ma mettendo come priorità assoluta la salute e la tutela dei minori».
Dunque siamo su due posizioni molto distanti l’una dall’altra. Se per il nostro sindacalista, il docente «leggermente cannato» è compatibile con l’insegnamento, per il sottosegretario Giovanardi l’insegnante, che ama lo spinello, sia pur tutelato nella sua dignità di lavoratore, va allontanato dall’insegnamento. Una cosa però è certa. Per capire a fondo il problema, bisogna vivere in prima persona in un contesto scolastico e rendersi conto di cosa si può provare nel vedere un ragazzo in preda ai fumi di uno spinello.
Qui non è questione di caccia alle streghe, ma è questione di modelli positivi da trasmettere alle giovani generazioni. Può uno spinello essere considerato un elemento positivo ai fini della crescita morale, sociale e relazionale di un soggetto inserito in un contesto prettamente educativo? Può un’istituzione come la scuola tollerare al suo interno la presenza di docenti portati a valorizzare un’esperienza di per sé drammatica per le conseguenze che può generare? E dove mettiamo la testimonianza a cui sono chiamati in primis gli educatori tutti? Sono domande che a mio modo di vedere hanno una sola e categorica risposta.
Niente spinelli! Leggera o pesante che sia una droga e pur sempre una droga.
In un contesto educativo, dove il dato relazionale supera la sua semplice funzione di relazione per diventare elemento propositivo di modello educativo, chi è chiamato a compiti comunicativi non può trasformarsi in valore negativo. Perché farsi una canna, spinellarsi, fino a prova contraria, non può essere classificata come azione positiva. L’uso di droghe non può e non deve trovare giustificazione come proposta, proprio perché non aiuta, chi le consuma, ad essere presente a se stesso. E chi non è presente in sé, come può credere di essere presente per gli altri? Di essere un valido esempio educativo?
La scuola ne ha visti e continua a vederne di tutti i colori. Presenze strane hanno sempre aleggiato attorno al pianeta educativo.
Docenti psicofisicamente usurati, docenti «ammazzaconigli», docenti dalle attenzioni morbose, docenti che guardano filmini hard sul proprio cellulare in classe mentre gli studenti sono impegnati nel compito in classe (arriva da Vicenza l’ultima storia), docenti dalla doppia vita: colte di giorno e «bollenti» di notte e ora la scuola deve fare i conti anche con docenti amanti delle canne. E basta!
Un conto è sentire solidarietà, stando vicino a chi sbaglia «in parole, opere ed omissioni», altro è non ammettere che chi sale in cattedra non può permettersi il lusso di allontanarsi dal proprio compito primario fatto di confronto culturale, di onestà intellettuale, di esempio comportamentale.
Come può un docente «in canna» proporsi a un ragazzo come esempio da imitare? Come può un docente «in canna» essere credibile agli occhi di chi cerca nel proprio insegnante equilibrio, razionalità, coerenza con i valori aperti al rispetto di se stessi e degli altri? Suvvia. Siamo seri. Cerchiamo nei tanti fatti quotidiani le ragioni della solidarietà e della comprensione, ma non le ragioni di certe azioni che non hanno nulla di vitalità, di affidabilità, di rispetto e amore verso il prossimo.
Una docente che arriva a iniettarsi eroina nei bagni della scuola fino a rischiare la propria vita, interroga la coscienza di chi non ha saputo dare ascolto, di chi non ha saputo cogliere il significato di quell’urlo silenzioso di una donna che ha avuto come unica colpa quella di non essere stata capace di urlare più forte la propria sofferenza.
Chi si droga o si fa una canna, o comunque si scola una bottiglia di alcool oltre a rovinare se stesso vanifica l’azione educativa che non può fondarsi su modelli distruttivi. Questo vale in ogni campo dell’esperienza umana. Come può un medico, ad esempio, invitare a smettere di fumare presentandosi davanti al proprio paziente con la sigaretta in bocca? Un cattivo esempio finisce per aggiungere errore ad errore. Sono professionisti poco credibili agli occhi di chi da quella professione dovrebbe ricavare il massimo dell’insegnamento.
Chi detta e commenta le regole di un buon comportamento, non può nello stesso tempo presentarsi come un disfattista, perdendo di vista i valori che predica. E se poi c’è qualcuno che propone test antidroga nelle scuole per tutto il personale (e io direi a cominciare dai presidi), perché scandalizzarsi? Anzi.
Meglio sarebbe agire a più ampio raggio istituzionale e cominciare dai parlamentari per finire all’ultimo bidello appena assunto. «Absit iniuria verbis “sia lontana l’ingiuria dalle parole”» ci ricorda Tito Livio.
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