Lenire le ferite, fermate i violenti

“Grazie che si è fermato”. E mi porge un volantino. È un “forcone” buono, responsabile, quello che si china verso il finestrino della macchina. E ai ragazzi, che sentono invitare l’autista della corriera, che li porta a scuola, a unirsi alla protesta, un altro manifestante grida forte: “Prima andate a scuola, poi venite qua”. Sono questi i volti del popolo dell’indignazione, della disoccupazione, della cassa integrazione, dei precari, dei giovani, dei padri e delle madri? Anche! Molti, però, appartengono alle frange più deboli del lavoro autonomo, come i camionisti con un solo mezzo, gli ambulanti, alcuni agricoltori. Altri invece sono i vecchi arnesi della protesta delle partite Iva, antifisco, come alcuni commercianti o artigiani e piccoli imprenditori. C’è di tutto in questa protesta, compresi i violenti e le estreme ali di destra e di sinistra. I blocchi “eccessivi” a Orsenico sulla Pontebbana, ai caselli dell’autostrada a Portogruaro, a Conegliano, a Treviso Sud, a Vicenza, a Verona suonano l’allarme. Non è casuale che a Portogruaro, come è successo a Torino, alcuni poliziotti hanno posato i loro caschi, confidando: “Abbiamo gli stessi problemi per arrivare a fine mese”. Di fatto i “forconi”, spesso parte di quel popolo che non ha mai votato o ha deciso di non votare più, sono diventati i catalizzatori della rabbia trasversale che aspettava qualcuno che accendesse il cerino per bruciare. Il malessere è così sentito che la gente, pur sopportando il disagio delle code, spesso non s’infuria (come dovrebbe), condividendo il malcontento. Più volte abbiamo scritto che, quando scarseggia il pane sulla tavola, quando vi è difficoltà a comperare i libri ai figli, quando il frigorifero è freddamente vuoto, quando non si riesce più a pagare il mutuo, si scende in piazza, finendo per coagulare vari movimenti con il pericolo d’infiltrazioni dei violenti e di gravi disordini. Per questo occorre evitare alcuni errori. Il primo: “sottovalutare” il “disagio” dei disoccupati, delle famiglie. Il secondo: soffiare per ragioni di partito sul malumore come sta facendo Grillo e un po’ Berlusconi. Il terzo: illudere che tutto finirà presto, basta una Germania più ragionevole. Il quarto: minimizzare la sfiducia, purtroppo generalizzata e persino eccessiva, nella politica. Il quinto: considerarsi, vedi i Comuni, al riparo dalle proteste, facendo credere di non essere parte del problema, nonostante gli sprechi e debiti di troppe amministrazioni, Regioni comprese. Pochi giorni fa il rapporto del Censis, che non è un istituto di ricerca incendiario, lanciava un monito alla “classe dirigente italiana”, che “tende a ricercare la sua legittimazione nell’impegno a dare stabilità al sistema, magari partendo da annunci drammatici, decreti salvifici e complicate manovre che hanno la sola motivazione e il solo effetto di far restare essa stessa la sola titolare della gestione della crisi”. Attenzione a non scherzare con il fuoco. Il momento è delicato. Vi è bisogno di serietà e impegno. Di buoni esempi. Di giustizia. Di carità. Di solidarietà che lenisca le ferite provocate dalla crisi, frutto non solo della globalizzazione ma anche dell’ingiustizia. Il che non giustifica una protesta a oltranza, di fatto contro la vita normale della gente.

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