Lo sai che sono anch’io italiana?

Non possono votare, sono esclusi dal servizio civile, non hanno accesso a molti bandi pubblici e ad alcune professioni. Sono i giovani immigrati di seconda generazione, i cosiddetti “G2”: figli di stranieri nati in Italia, oppure arrivati nel nostro paese da piccolissimi. Molti non hanno accesso alla cittadinanza italiana. Benché parlino la nostra lingua, studino Dante, siano amici dei nostri figli, lavorino tra noi. La legge spesso chiude loro in faccia le porte del presente e del futuro. Ma qualcosa sta cambiando nella coscienza collettiva. Tanto che la campagna “L’Italia sono anch’io” (promossa da 19 organizzazioni, fra cui Caritas e Fondazione Migrantes, Arci, Acli, Cgil, Libera) nei mesi scorsi ha raccolto ben 110 mila firme per ciascuna delle due proposte di legge che sono state consegnate al parlamento all’inizio di marzo. Uno degli obiettivi è ottenere il riconoscimento dello ius soli, cioè il diritto di cittadinanza italiana ai figli degli stranieri, insieme a un percorso più facile per chi arriva in età prescolare. E poi c’è il diritto al voto amministrativo per gli stranieri residenti in Italia da cinque anni. La maggior parte dei giovani G2 va a scuola, soprattutto elementari e materne, ma stanno crescendo gli iscritti alle superiori. Alcuni già lavorano e qualcuno è già diventato genitore di bambini che, ormai, appartengono alla

terza generazione di migranti, con i soli nonni nati lontano.

«Per la maggior parte sono romeni, marocchini, albanesi. Ma anche filippini, cinesi, gli ucraini sono in crescita – spiega Salvatore Strozza, professore di demografia alla facoltà di scienze politiche dell’Università di Napoli Federico II –. I bambini da zero a quattro anni, in genere, sono nati qui. Gli altri sono arrivati poco dopo la nascita, quindi la maggior parte di loro studia ancora».

I dati parlano di più di 700 mila ragazzi con cittadinanza straniera iscritti alle scuole italiane, che vivono soprattutto a Milano, Roma e Torino. «Non si può invece fare una stima degli ambiti occupazionali, perché le indagini sono poco attendibili».

Ciò che è certo, per gli esperti della materia, è che il quadro giuridico attuale va aggiornato. La questione è stata sollevata anche dal presidente della repubblica, Giorgio Napolitano, che più volte ha sollecitato il parlamento a occuparsi della condizione di chi vive da straniero in patria.

«I migranti possono diventare italiani solo dopo dieci anni di residenza ininterrotta – spiega Strozza –. Ma, soprattutto, la legge non favorisce le seconde

generazioni: i figli degli stranieri possonochiedere la cittadinanza solo alla maggiore età, per l’esattezza fra i 18 e i 19 anni. E se questo non avviene, ecco che si presenta il problema del permesso di soggiorno».

Ma perché questi ragazzi non si

regolarizzano a 18 anni? «Sono tantissimi gli intoppi che limitano l’acquisizione della cittadinanza – precisa Strozza –. Ad esempio un rientro temporaneo nel paese d’origine, oppure un’iscrizione tardiva all’anagrafe. E poi c’è chi non conosce la procedura, chi se ne dimentica».

Per gli studiosi, la legge italiana

guarda al passato, a un’Italia ancora paese d’emigrazione e non di migrazioni.

«Arriviamo al paradosso: capita

che chi ha origini italiane, ma in

Italia non verrà mai, ottenga la cittadinanza dalla nascita. Magari lo fa solo per mettere in tasca il passaporto europeo e poi andare a lavorare altrove. Al contrario, un ragazzo di seconda generazione nato in Italia diventa italiano solo quando i genitori ottengono la cittadinanza, per trasferimento del diritto. Non è assurdo?».

Per questo, nel 2005, è nata la rete G2, movimento culturale che ha lanciato la proposta di riforma della legge, scritta nel 1992 sulla base di quella del 1912. Le seconde generazioni sono attive anche in internet con blog, forum e una pagina Facebook con oltre 2.500 contatti. Sostengono che, mentre le seconde generazioni crescono, si allunga la distanza fra noi e loro: a parità di esigenze, non vi sono uguali diritti.

Ma una doppia identità può creare disagio? Alla lunga, l’oscillare tra due appartenenze potrebbe addirittura innescare episodi simili alle rivolte che abbiamo visto accadere nelle banlieau di Parigi o nelle periferie inglesi, autentici sfoghi di malessere di bande di giovani contro i quartieri dove hanno vissuto fin dalla nascita? «Rischio minimo: le seconde generazioni non solo si sentono italiane, ma lo sono a tutti gli effetti – afferma Strozza –. Tuttavia non possiamo trascurare i problemi che potrebbero nascere in futuro. Se non si riconosce la cittadinanza, se non si creano le condizioni per acquisire una formazione adeguata e spendibile sul mercato del lavoro, possono prevalere frustrazione e malcontento, dunque dinamiche conflittuali. Ciò dovrebbe spingerci a eliminare al più presto tutte le barriere all’integrazione. In ogni caso, il problema non si risolve dando ai ragazzi una carta di identità».

Un fattore fondamentale, per accelerare l’integrazione, è l’istruzione. «Sono preoccupato per l’inserimento scolastico di questi giovani. Partono da contesti più svantaggiati, mentre le loro aspirazioni sono le stesse dei ragazzi italiani – conclude il docente napoletano –. A volte i figli di stranieri sono addirittura più “avanti”, più moderni, parlano più lingue, il loro bagaglio culturale è una risorsa. Ma abbandonano la scuola prima, e questo rappresenta l’inizio di un percorso accidentato, che impedisce la costruzione di quel capitale umano di cui parlano gli economisti, che garantirebbe loro un futuro migliore di quello dei genitori. C’è molta strada da fare e dobbiamo ricordare che, sulle seconde generazioni, si gioca l’integrazione».

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