Ma non sono un problema di ordine pubblico

Tra il 2007 e il 2012 (gli anni duri della crisi) il numero dei poveri in Italia è raddoppiato. Da 2,4 milioni di persone a 4,8 milioni. E sono poveri “veri”, quelli che, secondo le classificazioni dei sociologi, versano in condizione di povertà assoluta. Vale a dire quelli che «non possono sostenere la spesa necessaria mensile per acquisire il paniere di beni e servizi che, nel contesto italiano, è considerato essenziale a conseguire uno standard di vita minimamente accettabile». Ma, a fronte di una dilatazione così rilevante dell’area della povertà, si è registrata, nello stesso periodo, una contrazione sbalorditiva nel l’azione di contrasto e di prevenzione del fenomeno. Tant’è che l’Italia, insieme con la Grecia, è ancora priva, a differenza degli altri paesi europei, di uno strumento di intervento adatto a combatterlo e, se possibile, prevenirlo.L’interesse del Rapporto 2024 della Caritas italiana, presentato a Roma l’11 luglio scorso, è costituito dal fatto che esso prende in esame, e lo fa in modo impietoso, lo scarto tra quei che accade e quel che si è fatto finora per limitare il danno. Si tratta, dunque, al di là della compostezza del linguaggio, di una schietta denuncia di una situazione insopportabile e di una richiesta esplicita di un cambio di rotta.La presenza alla presentazione del Rapporto da parte del ministro Poletti, preposto al welfare, ha acuito la curiosità. Un governo che dichiara di voler “cambiare verso” all’Italia quali propositi-progetti ha in animo su questo tema cruciale? Detto in volgare: l’attuale governo italiano considera il tema della povertà come prioritario o no?La domanda, formulata dal direttore di Caritas italiana, don Francesco Soddu, e dal curatore del Rapporto, Cristiano Gori, è stata al centro di un confronto che, valutando realisticamente le cose, non si è concluso (e non poteva esserlo nello spazio di una mattinata), ma è rimasto appeso al dubbio sui termini in cui possa ulteriormente svilupparsi.Due elementi specifici conferiscono autorevolezza all’iniziativa Caritas. Il primo è costituito dal fatto che non si tratta di un pensiero solitario, ma dell’espressione di un’Alleanza contro la povertà in Italia, che aggrega una ventina di organizzazioni. Citando alla rinfusa: dalle Acli ai sindacati, dall’Azione cattolica ai Comuni, dal Forum del Terzo settore alla Lega delle autonomie. Non è una circostanza marginale, perché dà forza a quella pressione su un punto principale, ossia alla creazione di uno strumento dedicato al contrasto della povertà assoluta, anche se non la si pensa allo stesso modo.L’altro elemento è rappresentato dall’utilizzazione dei dati rilevati dall’esperienza Caritas per meglio far comprendere quel che sta accadendo. Anche se non si tratta di rilevazioni statistiche certificate, vorrà pur dire qualcosa il fatto che i Centri d’ascolto segnalano che «aumenta il numero di coloro che si rivolgono ai servizi Caritas anche per effetto della riduzione dei casi presi in carico dai servizi sociali e dagli enti socio-assistenziali». Di più: «Le Caritas si trovano di fronte alla necessità di gestire, oggi più di un tempo, richieste di tipo materiale ed esigenze di tipo economico». Per cui «viene da dire che, in una fase di remissione del pubblico, qualunque funzione vicaria assunta dai soggetti del terzo settore disattenda quanto meno il principio di sussidiarietà, in assenza, per giunta, di un disegno che preveda il riassetto complessivo del sistema di interventi contro la povertà».Ma prima di passare al “disegno” conviene soffermarsi sulla valutazione che il Rapporto dà sulla politica delle social cards: la “carta-Sacconi” (2008), limitata agli acquisti essenziali minimi, la nuova social card del 2012, ancora in sperimentazione, che prevede anche programmi di sostegno e di inserimento, fino alla “carta d’inclusione sociale” estesa alle regioni meridionali. Un procedere a tentoni in cui l’oggettiva limitazione degli interventi si cumula all’incertezza delle direttive in assenza di un disegno generale di riferimento. Né qualche sollievo si è ottenuto con le misure adottate dal governo Renzi, i ben noti 8o euro, non destinati al contenimento della povertà e solo alla fine accompagnati da una promessa di estensione da verificare. E’ sulla base di queste valutazioni critiche che prendono corpo le possibili alternative di scenario.Ma tutto dipende dalla risposta che si dà alla questione pregiudiziale: la lotta alla povertà è o no considerata una priorità? Se la risposta è affermativa, si presentano due possibili sbocchi: quello dell’elaborazione di un piano nazionale contro la povertà e quello del welfare fondato sulla social card, ossia, sostanzialmente, sulle erogazioni monetarie. Nel caso di risposta negativa alla domanda pregiudiziale, lo scenario prevedibile sarebbe quello della “seconda repubblica”, cioè quello dell’abbandono della povertà a se stessa come una necessità “di sistema”, in attesa di un improbabile riassorbimento automatico per via di riequilibrio del mercato.Naturalmente il Rapporto si sofferma sull’ipotesi che preferisce, quella del “piano nazionale”. Che prevede un impianto universale dei diritti a tutte le famiglie in povertà assoluta, con importi tali da non lasciare nessuno al di sotto di un minimo vitale e con un progetto di inclusione sociale che dia alle persone l’opportunità di uscire dalla condizione di marginalità inclusa la ricerca di un’occupazione.Il tutto in un conteso di welfare mix, con l’impegno coordinato di attori pubblici e privati. E con una scadenza obbligata di verifica: la legge di stabilità da varare in autunno.Come ha reagito il Governo? Per dirla in sintesi, non ha negato l’attenzione ma non ha chiarito l’intenzione. Preso nel groviglio delle sperimentazioni in atto, il ministro ha dato l’impressione di non aver ancora preso in considerazione la pratica, né ha preso impegni espliciti nel senso auspicato. Chi scrive, memore dell’esperienza seguita al varo della riforma dell’assistenza, ha avuto la sensazione di un già vissuto senza sbocchi definiti. Eppure, i termini della scelta per un cambiamento diverso erano, e sono, ben evidenti. Basterebbe considerare quel che avvenne nel 2001, quando il governo Berlusconi concretamente revocò l’impegno, fissato per legge, di fissare i “livelli essenziali di assistenza”, in cima ai quali erano stabilite le “misure di contrasto alle povertà estreme”, imperniate sull’adozione a scala nazionale del reddito minimo di inserimento, che proprio quel governo declassò a “reddito di ultima istanza”, inaugurando il ciclo delle erogazioni monetarie peraltro sempre più esigue a fronte di una domanda sempre in aumento.Su questo punto il ministro ha mostrato una sensibilità, che andrebbe esplorata, mostrandosi scettico sull’efficacia risolutiva della politica dei sussidi (quindi delle card) se non accompagnata sa altri interventi di sostegno, volti all’inclusione sociale, lavoro compreso, dei soggetti interessati.Erano i principi del “Reddito d’inserimento” e sono i principi del “Reddito d’inclusione sociale” (Reis) proposto dall’ “Alleanza contro la povertà in Italia”. Era ed è la misura del superamento dell’impostazione per cui il povero è inteso come un problema di ordine pubblico e lo si affronta, come ai tempi di Crispi, con l’elargizione di un po’ di moneta in cambio di un po’ di tranquillità sociale.Se invece – come il ministro sostiene – si vuole che nessuno resti inoperoso, non c’è che da collegare il piano d’azione contro la povertà al grande e indilazionabile impegno di creazione di occasioni di lavoro per tutti, nel quale anche i poveri possano riscattarsi pienamente della loro condizione. Sapendo che nella teoria economica e nell’esperienza politica esistono le indicazioni di un percorso di mobilitazione di tutte le risorse.Ad un governo che tende alla gestione dell’esistente non si potrebbe chiedere tanto, lo si può e si deve fare con un governo che non nasconde le proprie ambizioni.

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