La Legge 94/2013, cosiddetta “svuota-carceri”, non manterrà la promessa insita nel proprio nome: secondo quanto dichiarato dal Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, le persone ristrette beneficiarie non saranno più di 4.000, su di un totale di 66.028 donne e uomini detenuti (fonte: DAP, 30.06.2013). Gli effetti della nuova legge, necessaria per evitare all’Italia una terza condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo in ragione del sovraffollamento degli istituti di pena, saranno tangibili soltanto a medio e a lungo termine, grazie al meccanismo di riduzione degli ingressi in carcere e alla più ampia possibilità di ricorrere alle misure alternative. Ma è già allarme sociale: i sindacati delle forze dell’ordine deputate al controllo – che soffrono di riduzioni di organico ormai croniche – denunciano infatti paginaNon è problemadi ordinepubblicol’impossibilità di procedere alle visite di routine nelle aree a maggiore densità di persone in esecuzione penale esterna, ovvero agli arresti domiciliari o in affidamento in prova ai servizi sociali.Il problema non è questo. La detenzione domiciliare non è un problema di ordine pubblico, a dispetto della diffusa percezione di insicurezza che negli ultimi anni è cresciuta in modo inversamente proporzionale al numero dei reati commessi nel nostro paese, numero a sua volta inversamente proporzionale a quello degli ingressi in carcere. In altre parole: diminuiscono i reati, aumenta la popolazione detenuta, cresce l’insicurezza percepita. I conti non tornano. Se diminuiscono i reati, tutti i reati - omicidi, tentati omicidi, lesioni gravi, rapine, furti in abitazione, borseggi (fonte: Istat – Cnel, Bes 2013) -, perché aumenta il numero delle persone ristrette? Perché la Legge 189/2002 (Bossi Fini) e la Legge 49/2006 (Fini Giovanardi) hanno reso penalmente rilevanti il soggiorno irregolare sul territorio nazionale e il consumo di sostanze stupefacenti; a queste si è unita la Legge 251/2005 (ex Cirielli), di inasprimento delle pene per chi commette due volte lo stesso reato, anche lieve.Diminuiscono i reati: giova sottolineare che nel 2011 il tasso di omicidi in Italia era pari a 0,9 per 100.000 abitanti (la media europea a 1,2, valore superiore a quello italiano): diminuiscono gli omicidi da criminalità organizzata, così come quelli per furto e rapina; non diminuiscono, invece, i decessi per omicidio subiti dalle donne, prevalentemente vittime di uccisioni in ambito familiare (l’assassino, si sa, ha le chiavi di casa). Ma cresce l’insicurezza percepita, alimentata per anni da politica e media: cresce la paura (dello straniero e del detenuto, per esempio), che può influenzare in negativo la libertà personale e la qualità della vita, pur essendo sostanzialmente priva di fondamento.E torniamo alla Legge svuota–carceri (che poi svuota–carceri non è): lo spirito della norma è quello di concedere i benefici di un regime meno afflittivo rispetto al penitenziario alle persone colpevoli di reati di non elevata pericolosità sociale. Dunque non ne saranno beneficiari gli appartenenti alla grande criminalità organizzata e neppure gli autori di delitti efferati (impossibile non pensare, con dolore, a due casi della cronaca lodigiana recente: maschi italiani i rei confessi, giovani donne straniere le vittime). Se poi persone colpevoli o imputate per attività e delitti di mafia escono dal carcere per scadenza dei termini della custodia cautelare, o in carcere non entrano per prescrizione del reato, è altro discorso, che nulla ha a che fare con la Legge 94/2013 e con la detenzione domiciliare.La detenzione domiciliare è detenzione a tutti gli effetti: la pena consiste nella privazione della libertà. E basta: il resto è arbitrio, o trattamento inumano e degradante. Detenzione domiciliare significa divieto di uscire dallo spazio assegnato per gli arresti, piccolo o grande che sia, esattamente come dalla cella o dal carcere. Qualora la persona ristretta abbia ottenuto il permesso di recarsi al lavoro (se ha avuto la fortuna di trovarlo), deve attenersi a orari e percorsi rigidi, dai quali non può deviare; qualora non abbia altri che provveda alle sue necessità, deve farlo in un giorno e in una fascia oraria prestabiliti, e in un unico punto vendita. Non può recarsi dal medico, o dal dentista, se non a seguito della presentazione di una istanza, che, nel caso non sia ravvisato il carattere di urgenza indifferibile, può essere rigettata. Nulla da eccepire, ma non si dica che non è detenzione. Preferibile rispetto al carcere? Senza dubbio, ma senza dubbio più faticosa. Il carcere è una istituzione totale, l’ultima ancora in essere nei paesi civili (dopo il lager e il manicomio): la persona reclusa vi è mantenuta in uno stato di mortificazione della personalità, di regressione all’infanzia. Nessuna possibilità di scelta, o quasi, ma anche nessuna responsabilità. La detenzione domiciliare comporta, invece, responsabilità: la prima è quella di non varcare la porta di casa se non nei giorni e negli orari consentiti. Elementare forma di rispetto delle regole, che la persona ristretta sceglie se agire oppure no: conseguenze della trasgressione sono la revoca del beneficio, il ritorno in carcere, il processo per evasione (a meno di non essere direttore de «Il Giornale»). Il carcere è talvolta un rifugio rassicurante (diffusissima la “paura di uscire”), ma del tutto remoto dalla vita vera, che è questione di scelte, rispetto delle regole e, appunto, responsabilità. Ed è alla vita vera che gli autori di reati è bene ritornino. Il problema, dunque, non è quello del controllo (non soltanto), ma dell’accompagnamento verso la piena assunzione di responsabilità, della cura di solitudini e sbandamenti. A questo fine non occorre un maggior numero di agenti, ma di psicologi, educatori, assistenti sociali - e, naturalmente, di volontari e volontarie -, perché la pena deve «tendere alla rieducazione del condannato» (articolo 27 della Costituzione repubblicana). La detenzione domiciliare è anche più efficace e meno dispendiosa rispetto al carcere. Più efficace perché la recidiva di chi sconta interamente la pena in penitenziario è del 69%, tre volte superiore rispetto al 22% di chi ha l’opportunità di accedere a misure alternative (fonte: A Buon Diritto). Più economica perché un detenuto in un istituto di pena costa quasi centoquaranta euro al giorno (di struttura: ai tre pasti quotidiani sono riservati poco più di tre euro), un ristretto agli arresti domiciliari ne costa invece meno di trenta (fonte: Antigone). La sicurezza sociale non risiede in recinzioni imponenti, porte blindate e sofferenza inutile: «I muri, almeno quelli del pregiudizio, vanno abbattuti. Le catene, almeno metaforicamente, vanno spezzate. – scrive Franco Corleone, Garante per i diritti dei detenuti del Comune di Firenze – È l’ora del cambio di paradigma. Siamo realisti, vogliamo l’impossibile e siamo già in ritardo».
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