Mentre il sole lento tramonta, si accendono le luci dei candelabri, e Gerusalemme è un tripudio di fiammelle. C’è tanta gente in quei giorni, che non si sa più dove metterla: abbondano i ricoveri di fortuna, e anche Gesù con i suoi amici passerà qualche notte all’addiaccio. Alcuni storici sostengono che la città santa degli ebrei decuplicasse i suoi abitanti nella settimana di Pasqua. Anche Pilato abbandona le comodità di Cesarea Marittima, sede del suo governatorato, per trasferirsi in quella città appollaiata tra le montagne di Giudea. Troppo rischioso lasciare quella marea umana a se stessa. Gesù ha affittato una stanza per celebrare la cena pasquale con i suoi amici. Si respira tensione nell’aria. Troppo evidenti i segnali: questi uomini di Galilea hanno la netta sensazione di essere spiati, di avere boccaleil fiato del nemico sul collo. Non tanto l’alito dei romani (quelli non deglutivano le tediose questioni religiose che ingolfavano le giornate di questo popolo che abitava l’ultima periferia dell’impero) quanto quello delle autorità religiose di Gerusalemme. Però, tutto sommato, i loro nemici erano una tigre di carta: l’esercito di occupazione aveva lasciato ai sacerdoti del tempio le briciole del potere temporale. In sostanza il sinedrio impugnava una lancia con la lama spezzata. Poteva farti del male, ma non troppo: aveva soprattutto bisogno dell’avvallo romano per chiudere le pratiche più spinose, spedendo un personaggio scomodo all’altro mondo.Gesù sa che quella è la sua ultima cena. Siede a tavola, indossando gli abiti più belli, e si schiarisce la voce. In quella notte il rituale prevedeva che si sarebbero ricordati i momenti gloriosi del passato: l’istante in cui i padri lasciarono la schiavitù alle spalle per trasferirsi in quella terra bellissima, che era l’amato Israele. Se afferravi tra le mani un pugno di terra e stringevi, questa, sbriciolandosi, ti spiegava cosa fosse la libertà. Quella terra era la tua terra. Il giardino che Dio ti aveva regalato perché tu finalmente non ti sentissi più schiavo di nessuno. Eppure Gesù, in quella notte con la luna quasi piena, non ha voglia di fare l’eroe risorgimentale. Solleva il pane con le mani. In quel medesimo istante doveva volgere gli occhi all’indietro e riesumare un episodio vecchio di mille anni: narrare le gesta di Mosè, e di quell’incredibile sfida che riuscì a vincere contro il faraone. E invece Gesù tace, nascondendo gli avvenimenti di quel passato remoto. Ha una memoria molto più breve, non si spinge più indietro degli ultimi tre anni. Gli scappano fuori rapide, come un sospiro, quelle parole enigmatiche che resteranno a lungo sospese nell’aria, senza che nessuno le capisse nel loro destino. “Questo è il mio corpo”. Riaffiorano rapidi nella mente i giorni di una vita corsa a precipizio: trent’anni di silenzio, e poi quell’inspiegabile foga, quella vita spericolata, le folle che si radunano, i malati che si risollevano, prediche che escono calde come brani di poesia. “La vita è un dono, ha senso solo se la sprechiamo nell’amore, e questo pane che si spezza è il ricordo di come ho vissuto in mezzo a voi”.Poi la cena ansima via veloce, c’è tempo per raccontarsi, fino ad arrivare a quell’ultimo calice: la quarta coppa di vino. Non era innocuo quel boccale. Nella simbologia della cena doveva richiamare l’ultima delle notti insonni di Dio, quella che tutti stavano attendendo, e che si sperava compiersi proprio in una festa di Pasqua. Era un calice pesantissimo quello che chiudeva la cena, fuso nel metallo più grezzo, quello che porta impresso il sigillo della nostra infelicità, e l’attesa di una salvezza che brucia nel cuore di tutti. “Questo è il mio sangue dell’alleanza”. E qui Gesù cala lo sguardo un istante e pensa alla sua morte, che sarebbe accaduta di lì a poche ore. O – forse meglio – pensa a noi, maledettamente a noi, a quell’amore che Dio si è trovato piantumato in cuore, tutto a nostro vantaggio, e che lo ha trascinato a condividere con noi l’ora tragica del trapasso. Non so se i discepoli in quell’istante capirono. Come non so se capiamo noi: il mistero di un amore che è penetrato fino all’ultima delle nostre notti.
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