Per una storia che non abbia silenzi...

Il passaggio dalla memoria alla storia è, nell’Italia del tempo presente, più che mai necessario: alla «Repubblica del dolore» (definizione dello storico Giovanni De Luna) occorre un confronto con il passato fondato su maggiore consapevolezza e criticità, che non si esaurisca nell’emozione e nella sofferenza, pur senza nulla togliere alla dignità delle vittime.

Ciò vale per il Giorno della Memoria, sul quale si sono spente le luci – e si riaccenderanno nei dintorni del 27 gennaio prossimo venturo, quasi che il pericolo che «simili eventi non possano mai più accadere» sia scongiurato per sempre –, e ciò vale per il Giorno del Ricordo, che la Legge 92/2004 iscrive nel calendario civile, il 10 febbraio, a memoria «delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale». Il periodo storico di riferimento è quello compreso tra l’8 settembre 1943 e il 10 febbraio 1947, giorno della firma del trattato di Parigi che – secondo i promotori della Legge - «impose all’Italia la mutilazione delle terre adriatiche», espressione analoga a quella «vittoria mutilata» che dopo la Grande Guerra contribuì a scatenare l’occupazione di Fiume, la violenza squadrista, la seconda guerra mondiale.

Istituendo il Giorno del Ricordo, si volle, di fatto, una equiparazione con il Giorno della Memoria, nel nome di una malintesa ‘par condicio’ tra le vittime, quasi che un orrore ne giustifichi un altro (è, del resto, la tesi portante del revisionismo storico: il fascismo e il nazismo quali reazioni al bolscevismo), quasi che occorra esibire il dolore delle vittime della propria parte affinché questo sopravanzi quello delle vittime dell’altra parte, o quanto meno lo equipari. Con queste premesse, la possibilità di costruire una memoria condivisa è destinata al fallimento: la memoria ufficiale, sancita dalle istituzioni e dalla politica, è un recipiente vuoto, al quale la retorica celebrativa non dà valore né significato. Non è un caso che la data prescelta per celebrare il Giorno del Ricordo non sia in realtà attinente alla tragedia delle foibe (che conosce due fasi: la prima nell’autunno 1943, nel contesto istriano; la seconda nella primavera 1945, nelle aree urbane di Trieste e Gorizia) e neppure a quella dell’esodo giuliano-dalmata (l’ultimo convoglio di profughi italiani parte da Pola il 20 marzo 1947), bensì – come si è detto – rimandi al trattato di Parigi, con il quale l’Italia, nel più ampio quadro del nuovo assetto europeo, cede (o restituisce) alla Jugoslavia il Carso triestino e goriziano, la città di Fiume, il territorio dell’Istria e quello di Zara. L’antagonismo politico si salda dunque con quello nazionale, proprio come è avvenuto settanta e più anni fa.

Pure, la legge istitutiva del Giorno del Ricordo, all’articolo 1, fa esplicito riferimento alla «più complessa vicenda del confine orientale».

È dunque a questa vicenda nella sua interezza che occorre guardare, con la consapevolezza che lungo le frontiere le identità sono molteplici e talvolta concorrenti e spesso scatenano violenze e ingiustizie.

La storia del confine orientale è davvero complessa: un triestino vissuto tra il 1918 (anno in cui si conclude la Grande Guerra) e il 1954 (anno in cui Trieste è riassegnata all’amministrazione italiana) è dapprima suddito dell’impero asburgico, poi del regno d’Italia; quindi, negli anni Venti e Trenta, assiste alla violenza fascista (o la subisce), per divenire tra il ’43 e il ’45 cittadino del Litorale Adriatico, ovvero del Reich; conoscere nella primavera del ’45 l’occupazione jugoslava e tra il ’47 e il ’54 vivere nel territorio libero di Trieste, sotto l’egida delle Nazioni Unite. E in meno di quarant’anni!

Meno di quarant’anni di violenze e ingiustizie, che risulta davvero arduo sintetizzare: l’aggressività del fascismo di confine, che perseguita non soltanto gli avversari politici ma anche coloro che parlano una lingua diversa (lo sloveno e il croato), sprezzantemente definiti «allogeni»; l’incendio, il 13 luglio 1920, del ‘Narodni Dom’, la Casa della cultura slovena di Trieste, e i disordini e i morti che ne seguono; le leggi introdotte a partire dal 1925, che prevedono il cambiamento dei toponimi, nonché dei nomi di famiglia e di battesimo, il divieto di utilizzare una lingua diversa dall’italiano nelle scuole, negli atti pubblici, nelle omelie; l’aggressione dell’Italia alla Jugoslavia, il 6 aprile 1941, senza dichiarazione di guerra; l’occupazione militare feroce e l’internamento delle popolazioni civili in un articolato sistema di campi di detenzione; l’incorporamento di Trieste, delle provincie di Udine, Gorizia, Fiume e Lubiana alla zona d’operazioni del Litorale Adriatico, istituita dalla Germania nazista dal settembre 1943, con la costruzione dell’Haftpolizei Lager della risiera di San Sabba, campo di transito ma anche di sterminio, ove sono uccisi soprattutto resistenti italiani, sloveni e croati e ove funziona un impianto crematorio; nell’autunno 1943, le uccisioni di italiani (fascisti e no) nelle foibe istriane, da parte del movimento popolare di liberazione croato, che ha per fine la liberazione del paese e la fondazione di un nuovo ordine sociale e politico; l’insurrezione, la liberazione, l’occupazione jugoslava tra il maggio e il giugno 1945 con nuove uccisioni nelle foibe (questa volta giuliane) e numerose deportazioni, di fascisti ma anche di coloro che si oppongono all’annessione alla Jugoslavia; il lungo esodo delle popolazioni giuliano-dalmate, un processo doloroso che si apre con l’abbandono di Zara (nel 1944) e si amplia con l’esodo progressivo da Fiume, Pola e dalla parte dell’Istria assegnata alla Jugoslavia, nell’arco di temporale tra il trattato di pace di Parigi (1947) e quello di Londra (1954).

La storia, per essere compresa, deve essere narrata nella sua interezza, senza silenzi strumentali né clamori mediatici. Violenze e ingiustizie, crimini di guerra e processi negati: nonostante gli accordi internazionali prevedano l’estradizione dei militari e dei civili italiani ritenuti autori di stragi e rappresaglie ai danni della popolazione slovena e croata, nel dopoguerra nessun colpevole è consegnato, nessun processo è celebrato, la responsabilità dell’accaduto è ricondotta dai memoriali di difesa prodotti dallo Stato Maggiore dell’esercito italiano alla guerra fratricida tra le popolazioni slave e alle aggressioni del movimento partigiano alle truppe italiane.

Dunque, scrive il grande scrittore Boris Pahor, «è giusto ricordarsi dell’esilio istriano e delle foibe, ma è ingiusto il non raccontare prima il genocidio culturale degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia». Il passato non può guarire senza giustizia.

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