“Impossibile fare previsioni”. È questa la frase più adoperata dagli esperti internazionali a proposito del futuro dell’economia mondiale a causa della destabilizzazione in Libia. Eppure i giornali sono pieni di previsioni, di dati, di proiezioni, a seconda che questo o a seconda che quello. La realtà è comunque veramente imprevedibile e tutto dipende se la crisi sociale e politica si limiterà alla Libia o si estenderà stabilmente anche all’Algeria e ad altri Paesi del Medio Oriente. La temporanea assenza del petrolio libico è sopportabile, ma un’estensione della fibrillazione del mondo arabo porterebbe a conseguenze preoccupanti. Anche le rivolte per la libertà hanno un costo.
Del resto già da ora si possono vedere vari sintomi che non lasciano ben sperare. Nel momento in cui scriviamo il prezzo del barile è a 98,50, ma nei giorni scorsi aveva fatto capolino oltre i 100 dollari. Si tenga presente che nell’anno della crisi petrolifera del 2008 il prezzo medio annuale era attorno a quella cifra.
La situazione in Africa del Nord non solo è molto lontana da una soluzione, ma addirittura non è ancora possibile averne una chiara comprensione. I tempi di un eventuale riassetto, di una rimessa in sesto dei pozzi, di una loro rinnovata utilizzazione sono molto lontani. Per questo è plausibile pensare che il prezzo del barile rimarrà a lungo attorno ai 100 dollari, e qualche analista lo colloca fino al 2020 addirittura tra i 120 e i 140 dollari.
Questo, si badi bene, anche se la crisi non si estende a Iran, Yemen o Arabia Saudita, ma rimane confinata in Libia o al massimo in Algeria. In altri termini, dovremo fare i conti a lungo con le conseguenze economiche di quanto sta accadendo ora sulle coste del Mediterraneo meridionale.
È vero che una produzione del 2 per cento come è quella della Libia (o del 4 per cento se sommiamo anche quella dell’Algeria) sono sostituibili abbastanza facilmente, ma solo nel breve periodo. Nel lungo anche una diminuzione di produzione così “lieve” si fa sentire.
Le conseguenze di simili fatti in economia sono sempre molteplici. Alcune di esse si compensano a vicenda, altre hanno il sopravvento in un quadro generale molto variegato. Anche in questo caso ci sarà chi ne risulta svantaggiato (comunque la maggioranza) e chi ci guadagna (sempre una stretta minoranza).
Ne risultano svantaggiati i Paesi emergenti, prima ancora che gli Stati Uniti o l’Europa. Questo perché l’aumento delle materie prime in quei Paesi e la crescita dell’inflazione inducono gli investitori a spostare i loro capitali verso i Paesi avanzati. Brasile, Cina, India stanno infatti alzando il costo del denaro per frenare tutto ciò, rinunciando però in questo modo ad una fetta di crescita. Un significativo travaso di capitali è avvenuto a favore della Russia che, per l’ampiezza delle sue riserve energetiche, può permettersi di dare sicurezza.
Anche l’Europa potrebbe risentirne, non godendo dei vantaggi di posizione di Stati Uniti e Russia. Qui da noi l’aumento del greggio significa aumento dei carburanti e, quindi, aumento dei prezzi. L’inflazione ha superato il 2 per cento: un dato per ora non allarmante, ma comunque un dato significativo. I Paesi europei sono in genere indebitati in modo significativo e l’inflazione farebbe aumentare il debito. Un aumento dei tassi d’interesse per tenere a freno l’inflazione limiterebbe la crescita perché renderebbe più caro il costo del denaro per le imprese.
“Impossibile fare previsioni”. Però una previsione minima e, per il momento, ancora sfocata in attesa degli sviluppi della situazione politica è possibile a farsi: bisogna favorire una soluzione veloce della crisi politica per poi dedicarsi a fronteggiare quella economica. Alla finestra ci stiamo stati abbastanza.
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