Pericoloso quest’anno parlare dell’8 marzo, ancora più che in passato. Dopo la manifestazione del 13 febbraio affrontare la questione espone come minimo all’accusa di strumentalizzare le donne, con un po’ meno fortuna ad essere etichettate come comuniste, femministe, propugnatrici dell’aborto e via di luoghi comuni. Pazienza, correrò il rischio, ma sono un po’ preoccupata per Giovanni Paolo II, dato che scrisse la “Mulieris Dignitatem”: spero che l’accusa non sia retroattiva. Conosco una donna che non era in piazza quel giorno, ma che ci sarebbe volentieri andata. Negli anni Settanta, quando ha avuto il suo terzo e il suo quarto figlio, le colleghe non parlavano con lei di diritti delle donne o di parità, perché «cosa vuoi saperne tu, che hai quattro figli?». Ecco, io penso che le donne negli ultimi quarant’anni abbiano capito tante cose e abbiano abbandonato molti pregiudizi e molti estremismi. Ad esempio abbiamo capito che non è necessariamente la maternità a renderci donne vere (come ritenevano le generazioni passate), ma che viceversa avere dei figli non significa diventare per forza delle poverette senza personalità. E che si può lavorare oppure no, e in ogni caso avere la possibilità di esprimersi e realizzarsi. Insomma, che si può interpretare il proprio essere donne - e ancor prima persone - nelle diverse condizioni in cui viviamo, senza che una abbia più dignità dell’altra. Perché come al solito la dignità non è in quello che ci capita nella vita, ma in come la affrontiamo, e non sono i nostri dati anagrafici a definirci, ma quello che siamo veramente. Così ad esempio una donna sposata può vivere il proprio rapporto in assoluta parità e assoluto rispetto e una donna libera può essere succube degli uomini che incontra. Penso che questo valga anche per la presenza femminile nella società. Ci sono donne che ricoprono ruoli prestigiosi in ogni campo e ci sono donne nelle stanze del potere, eppure questo non significa per forza riconoscere la dignità delle donne: non saranno le quote rosa a cambiare le cose, se non si modifica il modo cui la presenza femminile viene percepita e intesa. Ad esempio abbiamo sentito più di una volta il presidente del consiglio vantarsi del fatto che le donne che collaborano con lui a vario livello sono non solo intelligenti e laureate, ma anche belle. E ovviamente non vale lo stesso per gli uomini. Che sia inaccettabile pensare la donna come oggetto, affidarle un ruolo usando come criterio il piacere degli occhi maschili lo scrivevamo nei temi delle medie, e già allora era un luogo comune. Doverlo scrivere nel 2011 mi fa pensare che siano stati fatti dei passi indietro. E non la voglio “buttare in politica”, perché in realtà il risvolto più preoccupante è sociale e culturale nel senso più ampio del termine. Pazienza che la pensi così il nostro presidente del consiglio, ma è inquietante che la maggioranza degli italiani non si scandalizzi, che lasci passare queste cose come se fossero piccolezze, debolezze comprensibili e scusabili di un uomo che apprezza la bellezza femminile: vuol dire che il senso comune si sta dirigendo in questa direzione. Più o meno ci si è sempre aspettati che una donna di spettacolo fosse anche bella oltre che brava, ma questo criterio non può essere spostato in altri ambiti. Quando nel 1946 per la prima volta 21 donne sono entrate in parlamento, penso che nessuno si sia posto il problema di come fossero le loro labbra o di quanto misurassero i loro fianchi. Cominciare a farlo adesso sarebbe un grosso passo indietro.
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