Quando la parola annienta l’uomo

Mai come in quest’anno,in cui ricorre il 70° anniversario del termine del secondo conflitto mondiale, assistiamo in Europa ad un’esplosione di violenza, di antisemitismo e di razzismo che sembrava ormai relegata negli armadi della memoria.E mai come oggi vengono pronunziate parole dure, piene di violenza e di odio nei confronti dell’ altro, un linguaggio che spesso tradisce il disprezzo per la persona.Allo stesso modo, viene oggi utilizzato spesso un linguaggio spesso “urlato” e “povero”, alla stregua di quella lingua che si impose durante il periodo del potere assoluto del fascismo e del nazismo. Come affermava Octavio Paz, premio Nobel per la letteratura nel 1990, “una cultura comincia a corrompersi quando comincia a corrompersi la sua grammatica”.Mai come oggi, credo sia importante riflettere sulla “banalità del linguaggio”, in un tempo scandito da parole, che spesso però risultano svuotate del loro vero senso, da insulti che attraversano il mondo intero mediante l’utilizzo della rete, da articoli che quotidianamente appaiono su giornali e riviste e che sono più affilate e taglienti di un’arma a doppio taglio.“Il linguaggio ci tradisce. Tradisce il carattere banale del nostro pensiero.Dolf Sternberger ha analizzato il linguaggio del Terzo Reich e ha scoperto in esso il tradimento della lingua. Durante il Terzo Reich abbondavano le parole che cominciavano con be: befehlen (comandare), behandeln (maneggiare), bestimmen (stabilire), beherrschen (dominare) bekämpfen (combattere), befallen (assalire) – e l’elenco potrebbe continuare. Il prefisso be- indica spesso un’irruzione o un’intromissione e ha in sé qualcosa di violento e autoritario.Ma a volte il prefisso be- ha anche un significato positivo, ad esempio begeistern (entusiasmare), beleuchten (illuminare).In questo caso esprime l’uso di una capacità a favore degli altri. Ma nel Terzo Reich si preferivano le forme più aggressive delle parole in be-. Dolf Sternberger dovette constatare che, nel 1960, il linguaggio dell’ Unmensch (bruto, mostro) non era praticamente cambiato e si era diffuso negli uffici” (Anselm Grün, Parlare attentamente tacere con forza. Per una nuova cultura della comunicazione, Edizioni Messaggero Padova, pagg. 10 – 11).Il linguaggio era diventato un mezzo per annientare la dignità umana e, cosa peggiore, era continuato anche al termine del conflitto mediante il suo utilizzo nella sfera burocratica.“… il tedesco del lager, scheletrico, urlato, costellato di oscenità e di imprecazioni, aveva soltanto una vaga parentela con il linguaggio preciso ed austero dei miei testi di chimica, e col tedesco melodioso e raffinato delle poesie di Heine che mi recitava Clara, una mia compagna di studi” (P. Levi, I sommersi e i salvati, pagg. 75 – 76).Ed ancora : “Mi assorda con un fiume di parole, non capisco ciò che dice, voglio spiegarmi. Chiedo un interprete, un Dolmetscher (…). Il kapò ha deciso. Mi dice: eccoti il Dolmetscher (l’interprete) – e mostrandomi il pugno aggiunge: - Zehn Dolmetscher.Dieci pugni è la punizione”. (V. Papalettera, Tu passerai per il camino,p.46).E la sveglia del mattino era un programma per l’intera giornata:“Cominciò la vita nel lager di Flossenbürg. Al mattino alle ore cinque e trenta, sveglia; subito al bagno, con acqua fredda, per la pulizia personale. La sveglia avveniva in questo modo: negli spazi tra una fila e l’altra dei castelli, si piazzavano ben distribuiti dei picchiatori che all’accensione della luce gridavano Austen (alzarsi) e con dei manganelli picchiavano, con crudeltà e forza criminale. Lascio all’immaginazione di chi legge quanto là accadeva, realtà tragica ed infernale difficile da raccontare anche per chi l’ha vissuta. (G. Mariconti, Memorie di vita e d’inferno, pag. 88).La volontà nazista di negare l’individualità del detenuto si realizza anche linguisticamente mediante la riduzione del soggetto ad un accusativo servile (vale a dire ad un oggetto) mediante l’uso di verbi adoperati abitualmente per designare le cose. L’ individuo diventa una “cosa da usare”, da “manipolare”.“L’indifferenza, spesso il disprezzo, per la personalità singola, si grammaticalizza” (A. Lenzi, Il lessico della violenza nella Germania nazista, p. 25).I prigionieri erano dei “pezzi” (Stück) che dovevano essere trasferiti (o meglio spostati – verlegen) e quando la loro resa lavorativa era ormai al di sotto dello “standard” diventavano rottami, robaccia (Schrott). E man mano che tale linguaggio veniva utilizzato entrava sempre più nelle profondità umane e da tutti veniva utilizzato.Il filologo ebreo Viktor Klemplerer scrive che anche le vittime e gli oppositori del regime nazionalista finivano istintivamente per usare “la lingua del vincitore”. Le frasi imposte e ripetute migliaia di volte, le espressioni tipiche venivano accettate inconsciamente dalla massa e da questa assimilate e quindi utilizzate. Si tratta di un fenomeno psicolinguistico che si ripete anche nella società odierna (ad esempio, la rapida diffusione di espressioni moda lanciate da personaggi del mondo dello spettacolo).Al tempo stesso, il linguaggio utilizzato era un linguaggio zeppo di eufemismi, potremmo dire “soft”.Le camere a gas venivano definite “docce”, non si parlava di sterminio ma di “soluzione finale”, l’uccisione veniva chiamata “disinfestazione” mentre per l’arrivo veniva utilizzato il termine “accoglienza” o “cerimonia di accoglienza”. Nel lager di Mauthausen gli ebrei, soprattutto olandesi, spinti o costretti a buttarsi dalla parete rocciosa che fiancheggiava la triste e famosa scala della morte, venivano chiamati “paracadutisti”.Così come era stato stabilito nel Protocollo di Wansee del 20 gennaio 1942.“Con un accompagnamento adeguato, nel corso della soluzione finale, gli ebrei devono essere sottoposti al lavoro coatto a est in modo conveniente. In grandi squadre di lavoro, separati per sesso, gli ebrei abili al lavoro e adibiti alla costruzione di strade verranno condotti in questi territori e nel corso di questa operazione una gran parte verrà a mancare per eliminazione naturale. Il residuo dovrà essere trattato di conseguenza, poiché si tratta senza dubbio della parte più resistente, in quanto, rappresentando il frutto di una selezione naturale, qualora venisse liberata è da considerare cellula germinale di un nuovo sviluppo ebraico”.Dimenticare oggi anche il modo in cui il linguaggio veniva piegato alla logica della violenza e dello sterminio significa annullare anche tutte quelle migliaia di parole scritte o dette da coloro che hanno raccontato il ritorno dagli inferi, significa perdere quella “pazienza dialogica” che sola porta ad abbattere muri e costruire ponti affinché l’uomo, ogni uomo, abbia riconosciuta la sua dignità.E vigilare sul linguaggio, uscire dalle sue ambiguità e dalla violenza che è anticipata spesso dalla parola, è qualcosa che non compete ad altri ma a ciascuno, è un lavoro che ciascuno può fare partendo da se stesso.“Quante e quali lingue uno parla, altrettante cose, mondi e nature gli si dischiudono. Ogni parola che pronuncia cambia il mondo in cui si muove, trasforma lui stesso e il suo spazio in questo mondo. Perciò nulla è indifferente nel linguaggio” (Dolf Sternberger Aus dem Worterbuch des Unmenschen, pag.9)

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