Quei detenuti islamici nelle carceri italiane

Parlare di carcere senza parlare ancora una volta di quanto la pena sia fine a sé stessa, costituita dalla semplice consumazione di un tempo vuoto, senza redenzione e senza riscatto, senza dignità e senza speranza, è cosa ardua. E tuttavia necessaria, perché nel discorso pubblico il carcere ha uno spazio residuale, nonostante al carcere sia comunemente affidata la presunzione di una società più sicura.

L’occasione per parlare ancora una volta di carcere è data dalla conferenza stampa di Ferragosto del Ministro dell’Interno, Angelino Alfano. Due i punti di attenzione evidenziati dal Viminale: il costante calo dei reati e il rischio di radicalizzazione di detenuti di religione islamica nei penitenziari.

La prima è una buona notizia: nel periodo compreso tra l’agosto 2015 e il luglio 2016 i reati commessi sono stati 2.416.588, il 7% in meno rispetto al periodo di riferimento precedente. In particolare sono diminuiti furti, rapine e omicidi (il 32,91% di questi sono femminicidi, nella quasi totalità commessi da partner passati o presenti). Positiva anche l’azione di contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso, che ha portato a 1.654 arresti, anche di latitanti “eccellenti”.

Il secondo punto di attenzione – ovvero il rischio di radicalizzazione nei penitenziari - rappresenta una novità per l’Italia. Non per la Francia: Amedy Coulibaly, il terrorista responsabile della morte di cinque persone l’8 e il 9 gennaio 2015 a Parigi, e Chérif Kouachi, con il fratello Saif autore della strage della redazione di «Charlie Hebdo» (dodici morti), erano stati affiliati alla jihad islamica durante la detenzione nel penitenziario di Fleury-Mérogis (il più grande di Francia), ove scontavano pene per reati comuni. La conversione all’Islam radicale si era dunque consumata all’interno del carcere, già scuola di criminalità, ora di integralismo.

Il Ministro dell’Interno ha dichiarato che per contrastare il rischio di radicalizzazione nei penitenziari italiani è in atto un complesso programma di prevenzione, che si è dimostrato efficace e che vale la pena di conoscere, pur in estrema sintesi.

«L’attenzione al tema del contrasto alla radicalizzazione religiosa in carcere è molto alta e si attua concretamente attraverso un’attenta osservazione penitenziaria», si legge nel documento ‘Stranieri, fenomeni di radicalizzazione e libertà religiosa’ redatto nel luglio 2015 da Roberta Palmisano del DAP, il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia.

In primo luogo, i detenuti che devono rispondere di reati di terrorismo internazionale sono inseriti nel circuito penitenziario Alta Sicurezza 2 (sistema che si articola in tre gradi di sicurezza, il primo e il secondo per persone ristrette di «spiccata pericolosità»), che prevede la rigorosa separazione dalla restante popolazione detenuta. Ancora, poiché anche nei circuiti “comuni” vi possono essere integralisti arrestati per reati minori e circondati da soggetti deboli, facilmente influenzabili, «l’Ufficio Ispettivo del DAP effettua un monitoraggio, in ogni Istituto di Pena del territorio nazionale al fine di rilevare: come avviene la preghiera, i nominativi di tutti coloro che accedono dall’esterno in qualità di imam, mediatori culturali o assistenti volontari, i nominativi e le relazioni comportamentali dei detenuti che guidano la preghiera, che si rendono promotori delle istanze degli altri ristretti o che comunque risultano essere carismatici e dei convertiti da altre professioni religiose». Si tratta, in ultima analisi, di un ulteriore rafforzamento dell’osservazione e del controllo, per altro già capillare e per molti aspetti vessatorio, finalizzato a individuare quanto più precocemente possibile i sintomi della radicalizzazione religiosa. Ancora, «sono analizzati i dati che riguardano i quotidiani aspetti di vita penitenziaria, normalmente e legittimamente già in possesso delle Direzioni degli Istituti, e che si riferiscono all’osservazione del comportamento dei soggetti e dei loro contatti con l’esterno, come i flussi di corrispondenza, i colloqui, le telefonate, le somme di denaro ricevute ed inviate». Il documento, pur senza indicare alcuno strumento per conseguire la finalità, auspica infine una conoscenza più approfondita dei detenuti stranieri, per poterne individuare i bisogni e offrire loro le medesime opportunità di reinserimento e integrazione concesse ai cittadini italiani.

Il percorso, concertato nel quadro del programma RAN – Radicalisation Awareness Network, istituito dalla Commissione Europea, è rigoroso, tale da ragionevolmente rassicurare i timori dei cittadini. Tuttavia, ai fini non del contrasto, ma della prevenzione, il problema può essere affrontato con modalità di più ampio respiro e di maggiore efficacia.

Semplicemente, occorre cambiare il carcere. «Il miglioramento delle condizioni carcerarie è divenuto una priorità di natura politica in ragione del pericolo della radicalizzazione in carcere –afferma Vera Jourova, commissaria per la Giustizia dell’Unione europea, nel suo intervento agli Stati Generali dell’esecuzione penale (Rebibbia, aprile 2016) - Le carceri potrebbero svolgere una funzione positiva nell’attività di contrasto e prevenzione della radicalizzazione e del terrorismo, se fossero adeguatamente gestite e dotate di risorse».

Non lo sono: il carcere così com’è non è il luogo della rieducazione, come vorrebbe la Costituzione repubblicana, ma il luogo del dolore, di semplice consumazione di un tempo morto, senza redenzione e senza riscatto, senza dignità e senza speranza, di cui – per mia parte – tante volte ho scritto grazie al «Cittadino». La pena deve avere come fine rendere consapevole il reo e modificarne le scelte. Altrimenti è solo “pena”, dolore che si aggiunge a dolore, senza ragione, generando odio, distruttività, morte.

Ricorrere alla detenzione solo nei casi di eccezionale gravità, ripensare l’esecuzione della pena, cambiare il carcere, affinché sia possibile ricostruire e non demolire le vite che gli sono affidate in custodia, è la misura più efficace di prevenzione del rischio di radicalizzazione dei detenuti islamici e dell’alta probabilità di recidiva di tutti gli altri.

Una misura capace di garantire e coniugare umanità e sicurezza, per il bene dei singoli e della collettività.

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