Se è vero che c’è sempre un tempo per ogni cosa, è altrettanto vero che anche la scuola ha la sua stagione di massima visibilità: settembre. Con settembre, infatti, tutto è pronto per l’avvio di un nuovo anno scolastico. Un rito tradizionalmente accompagnato da articoli sui vari giornali, dibattiti televisivi, interviste radiofoniche, sempre lì a parlare e sparlare di una scuola che deve continuamente fare i conti con il caro libri, con l’abbigliamento griffato continuo oggetto del desiderio, con il corredo maggiormente pubblicizzato, per arrivare ai macro problemi, se vogliamo più tecnici, ma degni forse di maggior sottolineatura. E allora come si fa a non parlare della rivolta dei precari, del taglio delle classi, del blocco dei corsi di abilitazione, della verticalizzazione degli ordini scolastici primari con conseguente taglio del personale, dello sconforto delle nuove generazioni di docenti, fino ad arrivare ai presidi. Titoloni che annunciano scuole senza presidi, ma in certi casi anche senza vice-presidi, scuole date in reggenza a presidi di scuole viciniori, ma anche reggenze assegnate d’ufficio; concorso per presidi finalmente avviato (più di 42 mila candidati per poco più di 2 mila posti), ma anche l’annuncio di tempi lunghi per vedere al lavoro i vincitori. Mai come quest’anno la figura del preside sta trovando spazio sugli organi di stampa. Naturalmente, come spesso capita, non sempre l’immagine del preside esce fuori in maniera edificante. E’ appena il caso di accennare a un collega che in maniera «autocratica», decide di non prendere posizione nei confronti di un docente responsabile di qualche «castroneria didattica» fatta rilevare dai genitori evidentemente attenti e sensibili. La difesa a oltranza da parte del preside pare sia stata condizionata più da un tipico rapporto con un simpatico esponente di un’allegra consorteria amicale, che non da un equilibrato rapporto professionale che mai deve venir meno tra un dirigente e un docente. O di un’altra collega che, in perfetta «performance autoritaria» è salita recentemente agli onori della cronaca per aver punito una docente con dieci giorni di sospensione senza retribuzione. Motivo della grave decisione? La docente ha votato contro una delibera promossa dalla preside durante i lavori di un consiglio di classe straordinario convocato per punire un alunno dall’ottimo rendimento scolastico, pare ingiustamente inserito in un gruppo di studenti responsabili di un atto vandalico. L’ira della preside, velata da un’equivoca passione professionale, si è trasformata, in questo caso, in un’assurda punizione verso un dipendente. Certo ad essere pignoli qualcuno potrebbe scomodare il grande Aristotele che, nelle vesti di avvocato difensore, potrebbe assumere la difesa della mia collega irata quando scrive nella sua «Etica Nicomachea, libro IV°» che è degno di lode: «colui che si adira per ciò che deve e con chi deve». Mi dispiace, ma stavolta non sono d’accordo con il grande maestro. Lo posso dire «apertis verbis» tanto sono sicuro di non venire raggiunto da una benché minima punizione. Lo stipendio è salvo. Meno male! Ad onor del vero è lo stesso Aristotele a sottolineare come «l’eccesso, poi, si verifica in tutti i modi - ci si può adirare, infatti, con chi non si deve per motivi per cui non si deve». Ed è proprio l’errore in cui è caduta la mia collega. Siamo di fronte a un eccesso di passione, ovvero a un errore di dedizione che ha trasformato la stessa passione in ossessione fino a compromettere uno stato non solo emozionale, ma anche relazionale. Tutto sembra concitato, dettato quasi da un bisogno di esprimere la propria professionalità, rincorrendo una sorta di potere che non aiuta ad esprimere equilibrio, qualità, buon senso. Sono solo due episodi che vogliono evidentemente andare oltre il semplice racconto per riproporre l’importanza della figura del preside nella scuola di oggi. Da più parti si chiedono più poteri decisionali da affidare ai presidi chiamati a dirigere realtà scolastiche troppo spesso in preda a frenesie conflittuali sempre più difficili da gestire. Naturalmente non sono qui a difendere esempi di gestione che appaiono indifendibili. Ciò che si vuole è soprattutto portare all’attenzione dei lettori il livello di difficoltà che accompagna la professionalità di un preside. Dirigere una scuola oggi non è come dirigere un ufficio pubblico. All’interno di un edificio scolastico si esplicitano svariate condizioni relazionali che attraversano personalità e performance diverse. Interfacciarsi con un utente allo sportello di un ufficio, non è come mettersi in relazione con uno o più studenti, con uno o più genitori, e poi con docenti, bidelli, impiegati di segreteria, tecnici di laboratorio, sindaci, funzionari dei diversi enti locali, responsabili del mondo imprenditoriale, civile, sanitario, agenzie territoriali afferenti situazioni legate ai trasporti, all’informazione, alle finanze, al soccorso, alla sicurezza dei lavoratori, alle forniture, alle strutture. E’ un elenco lungo che potrebbe continuare ad allungarsi, fino a poter toccare un orizzonte dai svariati rivoli. Ecco perché quando si parla di presidi, si parla di persone che devono essere dotate di particolari doti di equilibrio, disposti ad ascoltare con rispetto, a cogliere, per rimuovere, eventuali situazioni di disagio, a interpretare gli atteggiamenti, le proposte, a misurare le parole, a promuovere entusiasmi, a valorizzare professionalità, a soffocare conflitti e a impedire che ne possano sorgere per futili motivi, a circondarsi di persone positive che vanno oltre ogni dimensione vincolante. Persone pronte a mettersi continuamente in gioco, che sappiano dare suggerimenti con razionalità e discernimento, che vedono delle opportunità di crescita in ogni situazione, anche in quelle negative. Un preside che si impantana nella palude dei piagnistei, poco incline al cambiamento, che si lascia influenzare dai condizionamenti, che cade nell’abitudine, che non ha reazione, che non avverte nessuna spinta emotiva provenire dal mondo esterno, è un preside destinato ad essere oscurato dalle sue stesse tensioni. Personalmente sono convinto che più dell’arroganza come stile dominante dell’agire professionale nel proprio ambiente di lavoro, può un ineffabile modello di sorridente umanità.
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