E proprio mentre l’anno scolastico volge al termine e gli insegnanti si confrontano, a volte con posizioni aspre e antitetiche, sugli esiti finali, sui giornali si torna a parlare di disagio esistenziale, “hikikomori” e “tabù” delle bocciature. Argomenti apparentemente slegati, eppure…
La Società italiana di pediatria (Sip), a fine maggio, ha pubblicato i risultati di una indagine condotta su un campione di circa 10.000 ragazzi, di età compresa fra i 14 e i 18 anni. Il dato più allarmante, che in certo modo rappresenta la fisionomia di questa generazione, è la vastità e la multifomità del disagio emotivo. Oltre il 50% degli intervistati ha dichiarato di essere stato (sempre, spesso, qualche volta) così male da non riuscire a trovare sollievo. E se a questa percentuale si aggiungono coloro che hanno sperimentato “raramente” questa sensazione si arriva a circa l’80% del campione. Il 15% del campione si è inflitto lesioni intenzionalmente spesso per trovare un sollievo (o per puro piacere).
“I risultati dell’indagine confermano che l’adolescenza è un’età difficile, la novità è che le difficoltà emotive e comportamentali emergono sempre più precocemente”, afferma sul sito dell’associazione il presidente Alberto Villani.
Allarmante il dato sugli episodi di autolesionismo, oggi più che mai attuale con le cronache legate al macabro suicide challenge “Blue Whale”.
In questi giorni si è parlato molto anche del fenomeno degli “hikikomori”: una delle sfaccettature più recenti e meno note in Italia del disagio adolescenziale, già diffuso soprattutto in Giappone. “Hikikomori”, nella lingua del Sol Levante, vuol dire proprio “ritirarsi, isolarsi” e sta a indicare quella categoria di adolescenti che sceglie di trascorrere la propria giornata in un vero e proprio ritiro sociale, all’interno della propria stanza.
Alla base di questa tendenza pare ci sia la volontà dell’adolescente di sottrarsi a qualsiasi forma di confronto sociale e di prestazione, prima fra tutte quella scolastica.
Pare che la diffusione così ampia in Giappone sia proprio riconducibile alla particolare complessità della scuola superiore in quel Paese, dove gli esami sono numerosi ed estremamente stressanti. Naturalmente la fragilità di questi giovani non è banalizzabile in una semplice “fobia” della scuola.
E qui arriviamo al punto di congiunzione con il recente articolo, a firma di Ernesto Galli della Loggia, che accusa la scuola italiana di non essere sufficientemente selettiva e meritocratica e che attribuisce alla ideologia dell’inclusione, una delle principali cause della flessione della qualità degli insegnamenti.
Essa impedirebbe di selezionare gli alunni in base al profitto e porterebbe a promozioni “generalizzate e indiscriminate”.
Una scuola, dunque, troppo “molle” e permeabile rispetto alla sfera emotiva degli alunni.
Ecco, in effetti, il nodo educativo da sciogliere: l’atteggiamento della comunità educante rispetto al disagio adolescenziale oscilla pericolosamente tra eccessiva accoglienza e tendenza alla giustificazione e bisogno di rigore e coerenza che riporti su binari di valore il processo di maturazione dei giovani.
Urgente la necessità di una risposta efficace e responsabile; alla radice la consapevolezza che “i nostri figli siamo noi” e il disagio di cui sono portatori affonda nelle disfunzionalità di una società ormai troppo spesso al corto circuito, sia nelle pratiche che nella impostazione.
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