Quel lavoro che non c’è, quale dibattito

Il dibattito degli scorsi mesi sulla riforma del mercato del lavoro si è concentrato soprattutto sugli aspetti di tutela giuridica del rapporto di lavoro dipendente, oscurando parzialmente la portata ben più ampia della proposta di riforma che il parlamento è chiamato a discutere. Senza scomodare le statistiche, il dramma odierno consiste nel fatto che il contratto tipico di lavoro, dipendente e a tempo indeterminato, non costituisce più – e da tempo – la normalità. D’altronde, le tutele tradizionali (cassa integrazione e sussidio di disoccupazione) erano una garanzia solo per una parte dei lavoratori del nostro paese. Banca d’Italia stima che circa 1,2 milioni di lavoratori dipendenti non avrebbero copertura alcuna, in caso di interruzione del rapporto di lavoro; a essi si affiancano 450 mila lavoratori parasubordinati, che non godono di alcun sussidio o non hanno i requisiti per accedere agli attuali benefici di legge.

La questione, però, non si può valutare in termini di maggiore o minori tutele per il lavoro, ma di maggiore o minore equità nella loro distribuzione.

In questo quadro, la grande novità proposta dalla riforma è rappresentata dall’Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego), ovvero lo strumento che sostituirà le indennità di disoccupazione e mobilità.

Perché è una novità? Anzitutto, perché si tratta di una misura universalistica e non categoriale, che finirà per includere soggetti finora esclusi da ogni strumento di sostegno al reddito.

Per accedervi sono infatti richiesti i requisiti ora necessari per la disoccupazione ordinaria: due anni di anzianità assicurativa e almeno 52 settimane lavorate nell’ultimo biennio, per una copertura della durata di 12 mesi, assicurata a coloro che hanno meno di 55 anni, e di 18 mesi per gli altri.

L’importo è agganciato alla retribuzione, con criteri di abbattimento connessi alla durata del sostegno economico.

La transizione da un sistema di ammortizzatori all’altro dovrebbe durare cinque anni, secondo la proposta del governo: il 2017 rappresenta la data di inizio del nuovo regime.

Nonostante i limiti che comunque la caratterizzano, la previsione di un sistema che include maggiormente i lavoratori

italiani, in senso universalista

rappresenta – sul piano della concezione del sistema di protezione sociale un passo in avanti rilevante. D’altro canto, la mancata copertura di significative

porzioni di lavoratori non eraequa né sostenibile, ed era frutto di una legislazione cresciuta nel tempo senza coordinare i provvedimenti, analogamente a quanto accaduto nel settore dei contratti di lavoro, di cui esistono oggi ben 46 tipologie (26 per subordinati, 4 per parasubordinati, 5 tra i rapporti di lavoro autonomo e 11 tra i cosiddetti “rapporti speciali”, dagli stage, ai tirocini, dai percettori di voucher ai venditori a domicilio).

L’approccio “per categorie” è la patologia di cui soffrono, in Italia, i già scarsi provvedimenti nell’ambito delle politiche sociali: il limite maggiore del principale strumento di contrasto

alla povertà attualmente in vigore – la carta acquisti, o social card – ne è l’esempio più eclatante.

La limitazione alle famiglie con un minore di 3 anni o un maggiore di 65 come requisito fondamentale, oltre alla condizione di povertà economica, dà la misura di un’incompiutezza incomprensibile, giustificata (si fa per dire) solo da considerazioni di bilancio.

Ascoltare da un ministro il termine “universalistico”, con accezione positiva, seppure riferito alla riforma del lavoro e all’Aspi, è dunque di buon auspicio.

A patto che apra la porta a un

processo di revisione normativa che attraversi tutto il welfare italiano. Ipotizzare che questo governo renda disponibili risorse aggiuntive, nell’attuale legislatura, appare illusorio. Ma la normativa che il parlamento è chiamato ad approvare – pur con probabili modifiche – avrà un effetto durevole, da valutare in modo positivo, perché in grado di stabilire un orientamento ad allargare la platea dei destinatari di misure sociali e anti-povertà.

Altrettanto positivamente, d’altronde, va valutata la costruzione di un sistema di tutele volto a impedire che i cittadini italiani precipitino automaticamente

dalla perdita del lavoro alla perdita del reddito, come purtroppo accade ai soggetti non tutelati dall’attuale normativa.

Non bisogna però farsi illusioni. Il 2017 è lontano e la crisi continua amordere un paese con un tasso di crescita esangue: quest’ anno sarà il più sfavorevole per le condizioni delle persone in difficoltà. Un effetto drammatico delle trasformazioni in atto è la maggiore visibilità del disagio delle famiglie e delle persone. Oggi precarietà del lavoro, disoccupazione e povertà tornano a essere temi del dibattito sociale e politico, dopo la grande eclissi degli anni Ottanta e Novanta, decenni nei quali le dinamiche di stigmatizzazione e di rimozione di tali questioni erano permanentemente in atto. Il decennio iniziale degli anni Duemila aveva addirittura compiuto la saldatura perversa tra povertà e devianza, come grande questione implicita nei “pacchetti sicurezza”, invocati o approvati.

Ora la crisi economica, colpendo

le famiglie operaie del centronord, ha reso la povertà economica una prospettiva reale non solo per le fasce di povertà strutturale del paese.

E ha infranto il mito della povertà scelta, invece che subita.

All’orizzonte si profila così la possibilità di porre la questione sociale come questione non marginale delle politiche pubbliche: certo, l’obiettivo dei governi dev’essere stimolare la crescita economica, ma senza ignorare le condizioni reali del paese e le sue sofferenze.

Mentre è ancora lontana la prospettiva di un’effettiva fuoriuscita dalla crisi, è realistico sperare in una maggiore consapevolezza delle nostre comunità – civili e politiche – sui temi della giustizia, dell’equità e della lotta alla povertà, come questioni non marginali e delegabili alla carità privata.

Universalismo, lotta alle disuguaglianze anche attraverso l’equità fiscale, welfare comunitario: se questi temi fossero posti al centro del confronto elettorale del prossimo anno, insieme a un’idea di sviluppo sostenibile e umano, rappresenterebbero un’inversione di tendenza straordinaria, dopo decenni affollati di miti liberisti. Sulle macerie di mercati incapaci di autoregolarsi, di spinte al profitto che non hanno generato crescita per tutti, di un’idea di homo economicus falsificata dalle tante fragilità e disperazioni di questo tempo, si potrebbe ricostruire con rigore ed equità un paese più serio, solidale e capace di affrontare comunitariamente le sfide del futuro.

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