Dopo la netta vittoria a sorpresa dei Conservatori di Cameron nelle recenti elezioni inglesi, il Discorso della Regina - che tradizionalmente annuncia le linee d’azione fondamentali del nuovo governo - ha confermato l’intenzione del Primo ministro e del suo partito di organizzare un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea per la fine del 2017. Il referendum è stato una delle promesse elettorali che hanno permesso a Cameron di arginare l’ascesa dell’Ukip a destra e non è dunque pensabile che possa essere accantonato. Insieme alla crisi greca e all’emergenza migrazione, si apre dunque un terzo fronte di fondamentale importanza per il futuro dell’Ue. L’attuale assetto istituzionale dell’Unione ha mostrato un’evidente incapacità di rispondere tempestivamente al sentire della gente e scontenta ormai molti Stati, non sempre per gli stessi motivi. Sono ormai numerose le voci che chiedono riforme rilevanti delle politiche comunitarie, ma una visione comune sulla via da intraprendere è ben lontana dalla vista. Cameron, dal canto suo, ha iniziato una serie di colloqui con i vertici di Bruxelles e con numerosi capi di governo europei per illustrare le richieste inglesi. Nei prossimi due anni il Regno Unito si batterà con determinazione per allentare i legami che lo vincolano agli altri membri dell’Unione, agitando lo spettro di una possibile uscita di Londra dall’Ue come lo spauracchio che tutti hanno interessi a evitare, ma cui sarà molto difficile sfuggire se le richieste del governo inglese non saranno accolte. L’Inghilterra può già contare su varie clausole di alleggerimento dagli impegni comunitari ottenute nel corso dei decenni e l’economia inglese non è vincolata alla politica monetaria della Bce. Di conseguenza, i problemi legati all’euro e ai temi economici in genere non costituiscono il motore principale della volontà inglese di ottenere ancora maggiore autonomia. Certo, il governo Cameron vuole evitare l’estensione alla City di Londra di alcune regolamentazioni finanziarie varate dopo la recente crisi, ma il vero nodo dietro al referendum è l’immigrazione. Non si tratta solo dell’immigrazione futura, poiché la Gran Bretagna gode già di una clausola di tutela che la esenta, ad esempio, dall’eventuale redistribuzione dei richiedenti asilo che arrivano dai Paesi mediterranei. Si tratta anche dell’immigrazione già presente sul suolo inglese, compresa quella intraeuropea. Larga parte dell’elettorato inglese, non solo conservatore, chiede di ridurre il livello d’immigrazione e di restringere l’accesso degli immigrati, anche comunitari, al sistema di welfare inglese. L’immigrazione è ormai un tema caldo in molti Paesi europei ed è stato centrale nella recente campagna elettorale inglese. In effetti, alcuni esperti sostengono che la campagna referendaria potrebbe somigliare a quella per il referendum scozzese, in cui l’identità nazionale era confrontata con i benefici economici dell’integrazione. Tanti inglesi non vogliono uscire completamente dall’Ue, come tanti scozzesi non volevano staccarsi del tutto dal resto del Regno, ma tutti sostengono fortemente una maggiore autonomia. Se Cameron riuscirà a ottenere delle riforme da presentare al proprio elettorato, il referendum resterà appannaggio dell’Ukip e sarà molto depotenziato. Saggezza vorrebbe che gli altri Stati europei cogliessero l’occasione dell’iniziativa inglese per ripensare a fondo l’Ue. Qualcuno suggerisce di varare definitivamente un’Unione a due velocità, distinguendo i «Paesi euro» dagli altri membri. Al momento però anche le opinioni degli Stati che adottano l’euro restano conflittuali, i leader lungimiranti scarseggiano e il varo, ad esempio, di una politica fiscale unica sembra un lontano miraggio.
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