Nel lungo viaggio della scorsa puntata fino al mitico paese di “Goga e Magoga”, a qualche lettore dotato di “buon fiuto” non sarà sfuggito un secondo significato di goghena (o goghna): quello di ‘liquame di fogna’. Lo so, la materia non è delle più attraenti ma, come diceva Fabrizio De André, i fiori nascono dal letame, non dai diamanti. E quindi, turandoci il naso, buttiamoci a capofitto nell’argomento, come i dannati della seconda bolgia dell’Inferno dantesco. Per cominciare dobbiamo però trasferirci ancora una volta nella vicina Francia. Qui, nel linguaggio famigliare e popolare, troviamo il termine goguenot, che sta per ‘vaso da notte’ o ‘luogo di decenza’; in senso figurato anche ‘posto sudicio’. Un termine, goguenot, oggi in disuso, proprio come il nostro goghena: due parole simili, non di identico significato, ma unite nel procedimento linguistico che gli specialisti chiamano metonimia, in questo caso “il contenente per il contenuto” (un esempio di contenuto più gradevole per tirarci su: ‘ndem a bev un bicier, dove non è il bicchiere che si beve ma ciò che contiene).Torniamo a casa e spostiamoci in campagna, dove troviamo la parola giüs (genericamente ‘sugo’) che indica un altro liquame, quello delle stalle e delle concimaie sparse fra Lombardia, Piemonte e Liguria. Un suo lontano antenato, il latino ius (sugo, brodo), è migrato nel francese (esempio di stagione: jus d’orange, succo d’arancia) e di qui nell’inglese (juice), conservando il senso di ‘succo’ o ‘sugo’. Curioso è che in Francia, nel linguaggio familiare, si usi la stessa parola jus anche per l’acqua in cui si fa il bagno, facendo sorgere qualche sospetto sulla provenienza dei “sughi” della rinomata cucina d’Oltralpe. Questo slittamento di significato ci ricorda una frase delle nostre nonne, le quali - dopo aver lavato i bambini nella tinozza - esclamavano: “è vegnüd giù el giüs!”. Era tale la sporcizia accumulata dopo una giornata di giochi all’aperto, che il colore dell’acqua ricordava quello del “sugo di concimaia”, anzi “de rüdera”.Rüdera è infatti l’immondezzaio, o il letamaio, o la pattumiera, in una vasta area che va dalla Svizzera meridionale all’Emilia, dove la ‘spazzatura’ si chiama più sbrigativamente rüd, senza distinzioni di origine o destinazione. Quando non esisteva la raccolta differenziata (allora non necessaria in quanto si buttava via ben poco) una larga buca in fondo al cortile, munita di coperchio metallico, fungeva da discarica temporanea. La pattumiera di casa si chiama tuttora, nelle famiglie dalla memoria lunga, portarüd. E alcuni dialettofoni superstiti ancora oggi chiamano rüdin lo spazzino: se li incontrate, evitate di usare termini come netturbino o operatore ecologico, vi manderebbero, nella migliore delle ipotesi, “a scuà el mar”.In campagna, la rüdera raccoglieva lo stallatico, prezioso ingrediente dell’agricoltura biologica già millenni prima che questa venisse di moda. Come la parola giüs, anche rüd ci arriva dal latino. Rudus era il rottame di pietre e mattoni, trasformatosi poi in rudo col significato più generico di ‘immondizia’. Lo troviamo, ad esempio, negli atti del processo alla Monaca di Monza (siamo nel 1600) dove si legge di “chiavi contraffatte [...] parte getate nel pozzo e altre getate nel rudo”. Dal dissolvimento dell’impero romano e della sua lingua perlomeno qualcosa si è salvato: i “ruderi” disseminati per tutta la penisola e il rüd sparso generosamente sui nostri campi
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