Si può dire che la scuola è allo sbando? Probabilmente sì. Basta scorrere i giornali per scoprire, con rammarico, quanto fango viene spesso buttato sull’istituzione scolastica. Che siano i genitori, o gli alunni, gli insegnanti o un comune sentire cambia poco. Ciò che rimane è la cattiva reputazione con la quale, da un po’ di tempo a questa parte, la scuola è comunque chiamata inesorabilmente a fare i conti. C’è gente a cui importa poco mettere in cattiva luce gli *preside dell’Istituto di tanto delle conseguenze. E’ il caso, ad esempio, di una scuola media di Roma dove, pare, in quanto a cattivi comportamenti e a bassi livelli di educazione non è seconda a nessuno. «Alla Rinaldi scaraventano i banchi fuori dalle finestre, coltelli a serramanico esibiti in bagno e poi calci, aggressioni con sedie ed estintori contro i docenti, atti di nonnismo. Tre volanti della polizia presidiano l’istituto. Docenti che chiedono continuamente trasferimento. Noi vogliamo una scuola sicura, una scuola tranquilla. La scuola che noi abbiamo scelto».
Non è un brano tratto da un libro che qualcuno deve ancora scrivere sono, invece, poche righe tratte da una lettera inviata ad alcuni giornali dagli studenti del Liceo romano «Vittorio Gassman» per rendere pubblico lo stato d’animo e il dissenso sulle decisioni prese dal preside e dalle autorità locali di trasferire alcune classi presso la scuola media «Rinaldi», dove, pare, avvenga un po’ di tutto. Una decisione individuata come unica soluzione possibile per risolvere la carenza di aule e laboratori segnalata dalla presidenza.
Che il clima sia pesante in alcune delle nostre scuole non è una novità, ma che addirittura una scuola debba essere costantemente presidiata dalle volanti della polizia per arginare violenze e vandalismi che quotidianamente si registrano, francamente mi sembra un po’ troppo. Ciò che più preoccupa è che stiamo parlando di una scuola media frequentata da preadolescenti che evidentemente, se fosse vero quanto denunciato dagli studenti, non trovano niente di meglio da fare che mostrare i muscoli fino a lasciarsi andare anche ad atti di nonnismo nei confronti dei ragazzi più deboli. Fenomeno antico quanto la scuola.
E’ Diogene Laerzio che ci documenta su quanto combinato da Cratete ai danni di Zenone aspirante studente della scuola cinica di Atene. Il povero Zenone ha dovuto subire una qualche pubblica umiliazione pur di essere accettato nella scuola. Ma questo non giustifica nessuno, nè tanto meno penso che i ragazzini della «Rinaldi» abbiano letto «Vite dei filosofi» di Diogene Laerzio per trovare conforto alle loro bravate.
Fatto sta che una scuola deve formare e una famiglia educare.
Purtroppo in questo caso particolare è evidente che qualcosa non funziona a dovere, talché la scuola non riesce a formare e la famiglia non riesce a educare e quando si viene meno alle proprie funzioni, siano esse educative o formative, il rischio di un fallimento totale è molto alto. Probabilmente in questa scuola dovrebbero essere trovate soluzioni tali da superare il tradizionale rapporto cattedratico per ricorrere a metodi didattici alternativi che catturino l’attenzione e suscitino entusiasmo. Capisco che un conto è parlarne, altro è vivere sul campo un gravoso impegno didattico-educativo in un contesto ostile. Sono problemi particolari che richiedono soluzioni altrettanto particolari. Però è bene sottolineare un aspetto di questa vicenda.
Si legge che anche i docenti resistono poco al preoccupante andazzo al punto da rifugiarsi nell’unica via d’uscita possibile: il trasferimento. Non c’è docente che resista più di un anno in questo istituto. Sono scelte che personalmente non condivido.
Non si può abbandonare un’esperienza, sia pure molto pesante, snervante e faticosa, per cercare altrove condizioni professionalmente più serene. Del resto non esiste la scuola ideale dove tutti gli alunni si sentano fortemente motivati e i docenti possano contare esclusivamente su modelli omologati.
Ogni scuola ha i suoi angioletti e le sue pecore nere.
Ogni docente deve fare i conti con la propria professionalità. E’ pur vero che quando ad ascoltare ci sono dei ragazzi difficili, vessati ancorché ossessionati da un pesante fardello sociale, ogni discorso è debole e ogni intervento è considerato a rischio d’insuccesso. Lo diceva persino Protagora (qualunquista per antonomasia) che insegnava ai suoi allievi (futuri maestri) cosa fare per essere credibili agli occhi di difficili interlocutori: «bisogna fare in modo di rendere più forte il discorso più debole».
Uno stato empatico lo si può vivere solo condividendo lo stato d’animo di chi ti sta di fronte, affrontando, quindi, le situazioni e non fuggendo da esse. Non penso che la soluzione al problema sia una richiesta di trasferimento, né può essere condivisa la risposta dei genitori quando affermano che «quella scuola è piena di bulli. Lì non mandiamo i nostri figli».
Ancora una volta a problemi disdicevoli corrispondono espressioni approssimative. Sbagliano i genitori a prendere posizioni drastiche, quasi da ultimatum, per esprimere tutto il proprio dissenso su una decisione presa dalle istituzioni. Sbagliano i docenti a cercare la scuola che non c’è. Sbagliano gli studenti a trovare nella ghettizzazione una risposta culturale. Non possono esserci scuole ghetto, come non possono esistere classi ghetto. Etichettare una scuola paragonandola a un luogo violento, non aiuta di certo a trovare adeguate risposte didattico-formative.
In questa scuola, come in tante altre di certe nostre note periferie metropolitane, occorre lavorare con uno stato d’animo diverso che non può non avere una correlazione con la più ampia realtà sociale da cui provengono i ragazzi.
La scuola, per vocazione, è chiamata a creare integrazione, ad abbattere i muri della disuguaglianza sostenuti, spesso, da pregiudizi e distanze culturali che tendono a stratificare ingiustizie e discriminazioni e ad alimentare paure e silenzi.
Evidentemente i ragazzi della «Rinaldi» chiedono nuove pratiche di comunicazione e relazione. Bisogna trovarle e non fuggire.
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