Sei reclusi stretti in una cella

«Il carcere così com’è non serve a niente – la battuta, consapevolmente amara, è di Libero Tarsitano, direttore della Casa circondariale di Torino nel bel film di Davide Ferrario Tutta colpa di Giuda – Più che altro serve a quelli che stanno fuori per tirare una linea, per buttare la “monnezza” sotto al tappeto. E nessuno si preoccupa del vero problema. Ossia? Il tappeto».Sotto quel tappeto si sta male, malissimo. In undici anni, dal 2000 al 2011, sono 1.865 le persone detenute morte in carcere: oltre un terzo (635) si sono tolte la vita: impiccate, asfissiate dal gas, in circostanze comunque dolorosissime (fonte: Ristretti orizzonti). I numeri sono aggiornati al 25 giugno 2011: alla pubblicazione di questo intervento saranno aumentati, è certo. Sono senza numero, poi, i ferimenti e i gesti di autolesionismo.Sotto quel tappeto si sta stretti, strettissimi: al 31 marzo 2011 le donne e gli uomini detenuti in Italia sono 67.600, a fronte di una capienza di 45.320 posti, dislocati in 205 penitenziari. La differenza è di oltre ventiduemila (fonte: elaborazione Ristretti Orizzonte su dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria). A Lodi una cella di undici metri quadrati “ospita” di norma sei reclusi, ma c’è chi sta peggio: in alcuni bracci di San Vittore, per esempio, i detenuti sono pure in sei, ma in sette metri quadrati, spesso costretti a rimanere sdraiati sui letti a castello a tre piani per venti ore al giorno. Altro spazio non c’è. Queste condizioni sono valse all’Italia una prima condanna da parte della Corte UE per i diritti umani (luglio 2009), poiché lo standard europeo è di 3-4 metri quadrati a testa in cella multipla, al di sotto dei quali la detenzione è considerata “inumana”. Provare per credere.Del resto le carceri italiane sono tristemente prime in Europa anche per numero di presenze straniere (l’irregolarità, grazie al “pacchetto sicurezza”, è reato) e per numero di detenuti che hanno commesso reati connessi con l’uso di stupefacenti (persone, soprattutto giovani, che dovrebbero essere curate, non recluse). Anche il rapporto tra detenuti e agenti di custodia contribuisce al sovraffollamento: in Italia c’è un poliziotto penitenziario ogni 1,4 detenuti, in UE ogni 2,6 (fonte: Antigone). Non che gli agenti se la passino molto meglio: in alcuni istituti sono perennemente sotto organico, costretti a turni di otto ore anziché sei, a rischio di nevrosi, o suicidio, per la tensione e il disagio di una professione difficile.Sconfortante, di contro, il numero di addetti all’area del “trattamento”: psicologi, educatori, assistenti sociali. Così come il numero di attività, corsi, eventi, proposti per e con le persone detenute (Lodi, sotto questo profilo, è una eccezione positiva).Si tratta di persone. Donne (2.969, una minoranza) e uomini, italiani e stranieri, già condannati o ancora imputati: questi ultimi sono 28.220, di cui 14.260 in attesa di primo giudizio, dunque secondo diritto ancora innocenti. Persone, a dispetto di quanti stringono le spalle, volgono il viso dall’altra parte, ostentano un indifferente «Se lo sono voluto».Le condizioni ora descritte, denunciate da Marco Pannella attraverso lo sciopero della fame e della sete, il dolore che si percepisce quasi fisicamente all’interno del carcere (per mia parte, soltanto dopo tre anni di ingressi come volontaria, riesco a scriverne), non sono degni di un paese civile e neppure di un paese normale: che piaccia o no, ledono anche la nostra dignità di cittadine e cittadini, che probabilmente non sconteranno mai il carcere non solo in virtù dei propri onesti comportamenti, ma anche delle maggiori opportunità culturali, economiche e sociali. Del resto – si sa - chi invola milioni non entra affatto in carcere, o ne esce presto; chi, invece, senza aver commesso reato, resiste a un pubblico ufficiale, agendo comportamenti maldestri, rischia di sprofondarvi per anni.Servissero a qualcosa, poi, questo dolore, questa pena... Perché, oltretutto, a dispetto dei giustizialisti male informati o in cattiva fede, non servono a nulla. È vero: in Italia la recidiva, la ripetizione del reato con conseguente nuova carcerazione, è altissima, perché il carcere produce altro carcere (quando non è scuola di efferatezza, come mostra Il profeta, film durissimo di Jacques Audiard), e in particolare per i cittadini stranieri. È normale: la prigione, dopo il lager e il manicomio, è l’ultima delle istituzioni totali ancora in essere. Le istituzioni totali si autoalimentano: l’individuo è ridotto a nuda vita, reso minore e posto sotto tutela, impossibilitato a operare in autonomia scelte in apparenza quotidiane e banali, per esempio fare una doccia o fumare un toscano. È vero, dunque, la recidiva è altissima: 68,4%. Ma la recidiva precipita al 28,1% nel caso di detenuti liberati in seguito all’indulto (sì, proprio l’indulto del 2006 che indignò i giustizialisti). E scende ancora, al 19%, per le persone che abbiano usufruito di misure alternative al carcere, ovvero affidamento ai servizi sociali, semilibertà, arresti domiciliari (fonte: Carcere aperto).Qual è la vera sicurezza? Costruire sempre più nuove prigioni oppure ripristinare ed estendere le possibilità di misure alternative alla detenzione, per altro già previste dall’ormai disattesa Legge Gozzini? La risposta è scontata, ma purtroppo non paga in termini elettorali. A costo di mantenere il nostro stato in una situazione di illegalità strutturale e costante, anzi «recidiva» - come ha dichiarato Marco Pannella. Insieme con il leader storico dei Radicali, si astengono dal cibo e dall’acqua nelle carceri italiane oltre diecimila detenuti. Nudi corpi, persone che non hanno che il proprio corpo quale carta viva su cui scrivere il proprio dolore. Pagine di sangue, come si vede nelle terribili sequenze carcerarie del film di Michele Placido Vallanzasca.Gli studi di Michel Foucault dimostrano che la pratica di sorvegliare e punire, rinchiudere per correggere, si impone soltanto nell’età moderna. Ma già nel 1764 - con la stessa «passione civile» e lo stesso «amore per le sorti comuni» che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha elogiato in Marco Pannella – Cesare Beccaria, illuminista milanese e grande italiano, dà alle stampe, anonimo, il trattato Dei delitti e delle pene: sul frontespizio, a emblema di una giustizia punitiva e crudele, un carcerato in catene, seminudo. Nudo corpo. La lezione di Beccaria trova, poi, la sua più compiuta espressione nell’articolo 27 della Costituzione repubblicana, che al comma 3 recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».I padri costituenti avevano vissuto sui propri corpi l’inumanità delle prigioni fasciste: certo non volevano che altri, che nessun altro, provasse quella stessa inumana esperienza.

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