Te gh’é bel pari a sberlugià...

LLudesan, largh de buca e stret de man, recita un antico detto che stigmatizza la nostra scarsa propensione verso gli eccessi di prodigalità. In effetti, sul tema dell’«avere», il lodigiano presenta alcuni aspetti interessanti - perlomeno «a parole» - che vale la pena di esaminare. Partiamo da un esempio d’autore: «Ti ades te gh’é bel pari a sberlugià...». Tratto dalla «Divina Commedia in dialetto lodigiano» di Tranquillo Salvatori, Canto VII dell’Inferno, dove si parla, guarda caso, proprio della pena riservata agli avari (da notare però che né l’Alighieri né il Salvatori ci segnalano la presenza fra i dannati di nostri conterranei). Il sommo poeta, di fronte a questi due versi in volgare lombardo, avrebbe esclamato: «Il senso lor m’è duro». E allora proviamo ad ammorbidirlo, dicendo che «aveghe bel pari» non ha niente a che fare con la parità o l’uguaglianza. Vuol dire invece ‘affannarsi inutilmente o con scarsi risultati’, come nell’italiano “avere un bel dire”. Nel nostro caso, lo sbirciare (sberlugià) di Dante è vano perché i corpi dei dannati - come ci spiega il verso successivo - “negri negrenti ti a distingui pü...» (‘nerissimi risultano irriconoscibili’).

Questo «bel pari», con ogni probabilità ci arriva direttamente dai francesi, non in una contesa calcistica (dove un «bel pari» qualche volta ci farebbe anche comodo) ma attraverso l’espressione «avoir beau faire» (‘aver bel fare’), con identico significato.

Altrettanto misteriosa per orecchie non avvezze al parlar lombardo è l’espressione «avegh di guai». «Incö gh’ò di guai a caminà», ad esempio, è la lamentela frequente di chi comincia ad avvertire nelle gambe il peso degli anni. Qui la parola guai non ha il significato comune di ‘disgrazie, disastri, danni, pasticci’, ma quello secondario di ‘impedimenti, ostacoli, difficoltà’. Quindi: ‘oggi ho difficoltà a camminare’.

E se qualcuno «ghe l’ha sü cun mi?». Qui l’interpretazione è più facile, perché anche l’italiano medio, magari pacifista in pubblico, nel privato può “avercela” con qualcuno, cioè ‘provare antipatia’, ‘serbare rancore’. Noi lodigiani aggiungiamo quel «su», tipico delle parlate popolari (contar su, metter su, prender su..). Bocciati in italiano allora? Macché, questa espressione l’ha usata anche il Parini, quindi niente segnacci blu dalla nostra vecchia cara maestra.

Non conosceva però, il Parini (e forse nemmeno una maestra «de föravia»), un secondo significato di aveghela sü: ‘essere fissati su qualcosa’, come ad esempio nella frase: «te gh’l’é sü cun ‘sta storia, te süti a parlàn!».

Traduzione letterale dell’italiano è invece «aveghe buntemp», su cui ci soffermiamo brevemente per un’altra curiosità. L’aggettivo buono nel nostro dialetto diventa bon (l’è un bon diaul, l’è bon da fà gnent, l’è bon ‘me’l pan, l’è bon per i cai ecc.), tranne in pochi casi, come appunto in buntemp (tempo da perdere), buntempon, bundì... Niente eccezioni per il femminile buna, da cui bunura (presto), bunaman (mancia), bunanima ecc.

Molto usata anche la forma «aveghe da…» - ben più frequente dell’italiano «avere da…” - nel senso di ‘dovere’. Diciamo infatti, ad esempio, «duarò andà» ma più spesso «gh’avarò d’andà», «duevi andà» più raramente di «gh’evi d’andà». Osserviamo però che, a differenza dell’italiano, per il presente indicativo e congiuntivo esiste soltanto la seconda forma («gh’ò d’andà» e «gh’abia d’andà»).

Un’ultima osservazione grammaticale. Il nostro dialetto, come l’inglese e lo spagnolo, distingue l’ausiliare avere (avé) dall’avere-possedere (aveghe): diciamo infatti «ò giamò mangiad ma gh’ò amò fam».

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