L’editoriale del direttore Pallavera di sabato 5 maggio non può non aver fatto ribollire il sangue nelle vene dei lodigiani, non averne rivoltato le pieghe più recondite dell’animo. Preso da un senso di impotenza, di costernazione, di rabbia ciascuno si sarà interrogato sul passato, presente, futuro di questa terra.La domanda che preme è: “Quale Lodigiano?”. La mia risposta è d’acchito: “Quello che abbiamo perso, che ci hanno rubato, devastato, violato”.Non mi addentro in analisi sociali, economiche, ambientali. Non è il mio mestiere. Le lascio agli esperti. Di parole belle e accattivanti ce ne sono già state propinate tante, progetti e convegni non sono mancati, idee innovative e suggestive hanno riempito sere e tavole rotonde. E a dispetto di tutto questo la realtà del Lodigiano è sotto i nostri occhi. E non è rosea.Fuori dai denti: il Lodigiano di oggi, in tante sue pieghe, in molti risvolti, non mi piace, eppure questa terra è nel mio sangue, malgrado tutto la amo più di me stessa e non posso restare a guardare. Ho forze impari, ho mezzi semplici e poco eclatanti, ma a me, come a ciascuno, il Signore ha dispensato qualche dono. Li devo, li dobbiamo spendere perché non siano vani.L’articolo di Ferruccio Pallavera apre le porte ad infinite disamine, tutte tangenti di un problema che conducono ad un solo vertice: “il Lodigiano è cambiato!”. Se è cambiato in peggio, lasciamo che continui su questa strada o serve fermarsi, ripensare i nostri errori, rimboccarci le maniche, cambiare rotta? In circa mezzo secolo una rivoluzione, senza precedenti nella storia dell’uomo, ha sconvolto il mondo e oggi lo smarrimento è in chiunque abbia occhi per vedere e intelletto da usare. Cerchiamo di tamponare con interventi empirici le grandi difficoltà create dai troppo rapidi mutamenti, ma quello che ci manca è una battuta d’arresto su tutti i fronti, che ci permetta di respirare, di prendere fiato, di ossigenare le nostre scelte, di modificare i nostri stili, di scrollarci di dosso la zavorra di cui ci siamo caricati.Diversamente siamo sulla strada del non ritorno. Per quanto annaspiamo cercando di non affogare abbiamo l’acqua alla gola e gli appigli a cui aggrapparsi sono pochi. Il contributo che ciascuno può dare trova spazio unicamente nella propria coscienza. La legge naturale, insita nel cuore dell’uomo, gli fa d’istinto capire dove sia il bene o il male, in qualunque ambito si muova, e quindi è in grado di scegliere la giusta direzione. Sa, ad esempio, che abbattere alberi senza motivo è stupido, che inquinare compromette tutto il creato, demolire anziché recuperare è stolto oltre che scaltro, sostituire la millenaria roteazione con sole monocolture è deleterio, e così via. Quando si allontana dalla via del bene l’uomo fa violenza al suo io e deve dare per scontato che la sua decisione sbagliata ricadrà come un boomerang su se stesso e sugli altri, oggi, nell’immediato, oppure domani, in un tempo che forse a noi non sarà dato di vedere, ma che i nostri figli o le generazioni future subiranno.Quale Lodigiano abbiamo perso? In primis quello che lo ha connotato nel corso dei secoli, se non dei millenni, quello che è stato la sua fonte primaria di ricchezza: l’agricoltura e tutto quanto ad essa legato. L’abbiamo ridotta ad una Cenerentola, anziché farne un punto di forza, investendo e puntando su di essa con la dovuta lungimiranza. Il verde della nostra pianura è unico. Spazi immensi di terre coltivate, boschi, filari, piante. Un terreno rigoglioso di messi, di frutti, di essenze, di fiori. Giorno dopo giorno abbiamo cancellato con colate di cemento, di asfalto, di logistica, questo patrimonio; abbiamo permesso che l’interesse di pochi, arbitri del buono e cattivo tempo, prevalesse sulla pelle dei più, che questi pochi, non gli umili, non i semplici, facessero a brandelli la nostra terra, lasciandoci stracci di verde intristiti, spogli, senza smalto e senza incanto.Abbiamo perso innumerevoli cascine; quelle rimaste, isolate ed abbandonate in una campagna deserta, paiono spettri di un passato appena spentosi, anime desolate di un vita agonizzante o per sempre inghiottita dal tempo e dalla fine.Qualche anima illuminata ne ha compreso il valore e con indomita audacia e coraggio le ha preservate, lottando contro un vento ostile. Ma il tempo oggi le premia, dà loro conforto e riscatto. Abbiamo perso la connotazione umana che ci rendeva diversi, unici. La fisionomia del lodigiano ha tratti di umiltà e apertura al prossimo, sobrietà e discrezione, semplicità e laboriosità. Oggi si è uniformata ai nuovi modelli sociali, sbiadendo la propria peculiarità, diluendo un’identità spiccata che le aveva permesso di non soccombere nei secoli.Abbiamo perso molto dello spirito cristiano che rendeva la nostra terra unica nella fede, accolta fin dagli albori del Cristianesimo con convinzione e trasporto. Parla, il Direttore, di ben cento campanili disseminati nel territorio. Quante persone ancora ne sentono i rintocchi, quante ancora sono fiere di una testimonianza convinta e coerente, sorda ai richiami dell’agnosticismo se non dell’ateismo, così di tendenza oggi?Abbiamo perso molto. Recuperare è solo compito nostro, di ciascuno. Un compito difficile, arduo, che comporta rinunce, restringe gli orizzonti. Ma non è impossibile. Dobbiamo solo volerlo, con tenacia, determinazione, impegno. Subito, fin da oggi, senza remore, senza indugi. E’ l’unico modo per dare spazio alla speranza.
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